and there's nothing I want more., Domenica 10.02.2008 / mattina

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Working on a dream
view post Posted on 8/4/2012, 23:11




markpost7
Mark Pace
«We're just two lost souls swimming in a fish bowl,
year after year, running over the same old ground»
¬ student – Wearing ( ) – Listening ( ) – sheet ()
Per l’ ennesima volta tesi la mano lungo il profilo del letto fino a sfiorare con le dita il cellulare. Quante volte avevo compiuto più o meno istintivamente quel gesto nel corso della settimana, lì steso come un malato, semirannichiato tra le coperte e il piumone, attendendo quasi un segno del destino, qualcosa o qualcuno che mi dicesse cosa fare e come reagire. In effetti ero malato, ma la mia era una malattia dell’animo più che del corpo; quella ne era la semplice conseguenza. Avevo lo stomaco chiuso, non dormivo se non per piccoli intervalli che comunque risultavano tormentati e avevo quel perenne pensiero che mi tormentava la testa. In principio avevo anche dovuto sopportare le mille domande di mia zia, poi alla fine anche lei aveva rinunciato alla cosa, abbandonandomi al mio destino. Già aveva detto proprio queste parole, proprio quelle che effettivamente esprimevano come mi sentivo in quel momento. Ero abbandonato, del tutto e completamente. Ero solo, terribilmente solo. Non so fino a quanto lo fossi in realtà: se solo avessi voluto avrei avuto Richie, Martha e gli altri ragazzi ma… io non volevo loro. Il punto, la verità più semplice ed essenziale di tutte, era che non me ne fregava un tubo di tutte queste persone. Non ora. La mia mente, il mio cuore reclamavano tutti una sola presenza, quella persona di cui io stesso mi ero privato in un sol secondo. Ero fuggito da lei, dal problema, dalla situazione. Mi ero ripromesso che non l’avrei più dovuta cercare, vedere e sentire e che le cose si sarebbero sistemate da sole. Mi ero detto che in una settimana l’avrei dimenticata o comunque avrei superato il trauma… Allora perché stavo così fottutamente da merda? Ogni volta che socchiudevo gli occhi lei era lì che mi guardava facendomi sentire colpevole e codardo, ogni volta che provavo a dormire i ricordi delle belle giornate trascorse assieme mi si paravano davanti. C’eravamo noi, sempre e solo noi e non avevamo bisogno di nessun’altro, perché eravamo completi l’uno con l’altra. Ellie era tutto quello che potessi chiedere in una persona , Ellie era stata tutto. Poi era successo quello che era successo, in un sol pomeriggio, ed io avevo stabilito che le cose dovevano cambiare perché avevo avuto paura.
Quello che non sospettavo o che avevo sottovalutato era l’impatto che lei aveva su di me. Da quanto tempo non riuscivo quasi più nemmeno a pensare senza sentirla? Ogni scusa era buona per mandarle un sms, per sentire la sua voce, per averla vicino. Tutto ruotava intorno alla sua figura, io ero possibile solo con lei.
Mi sentivo un drogato in astinenza quasi, forse lo ero davvero.
Nausea, occhiaie, i sintomi non sono forse questi?
I giorni si succedevano ed io sentivo la sua mancanza, sentivo il bisogno di lei e non solo fisico ma anche e soprattutto morale e psicologico… affettivo.
Qui in effetti si arrivava al primo grande punto della questione: mi ero detto che tutto sarebbe passato come le altre volte, ma non avevo messo in conto che Ellie non era come tutte le altre. Lei era unica, per me e per chiunque. Io avevo avuto l’onore ed il privilegio di averla solo per me e cosa avevo fatto? Avevo buttato via tutto quanto mi era stato regalato, sottovalutando la mia sorte e finendo per rimetterci, come era giusto che fosse.
Avevo meritato tutto quanto, tutta quella sofferenza, lo sapevo. Mi meritavo ogni tortura ed ogni pasto saltato, perché avevo fatto soffrire lei più di tutti, lei che invece avrei dovuto proteggere.
Mi sentivo lacerare al pensiero di quello che poteva star facendo, delle decisioni che poteva aver preso. Sì, la mia mente finiva sempre per tornare anche a quel punto nevralgico: me ne ero andato, ero fuggito all’idea di diventare padre, perché ero convinto che non lo sarei mai potuto essere, se non pessimo quanto lo era stato il mio.
Ero fuggito dalle mie responsabilità –fossero anche solo di scelta- e non mi ero nemmeno reso conto in tutto questo che facendo così avevo solo finito per assomigliare a mio padre più di quanto non credessi. Dopo tutto doveva esser qualcosa di scontato no? Lo stesso sangue cattivo mi scorreva nelle vene, non potevo esser così diverso: la codardia che aveva sempre contraddistinto lui alla fine aveva preso anche me, nel momento della vera sfida e tutte le mie promesse, tutti i miei discorsi erano andati in un secondo a puttane. Come avevo potuto permettere una cosa simile? Come avevo potuto andarmene sotto allo sguardo di Ellie? Se ci pensavo a posteriori mi rendevo conto di come dietro a tutta quella rabbia ci fosse la stessa identica paura che muoveva anche me… non era astio nei miei confronti, non era nulla… Era solo una richiesta di soccorso ed io anziché accoglierla l’avevo respinta e contrastata. Avevo disprezzato ogni cosa che era cara a noi e avevo distrutto fino all’ultimo barlume del suo pilastro. Ero stato crudele e viscido e mi odiavo, mi odiavo con tutte le mie forze.
E nonostante tutto questo fosse vero e ormai chiaramente scolpito nel mio animo, nonostante tutto appunto non trovavo la forza i cambiare le cose e mi sentivo solo ulteriormente vigliacco.
Vedevo davanti a me l’immagine di Ellie e tendevo quasi le palme verso di lei, per poterla stringere a me, sentire di nuovo vicina, amica… In realtà niente di tutto questo mi sarebbe più bastato. Mi trovavo a esaminare il mio cuore e capivo che non era più tutto affetto quello che sentivo. Non era quel semplice sentimento di benevolenza che ti fa sentire perfetto con qualcun altro… Io non ero stato bene con lei quel pomeriggio, io l’avevo anche odiata in alcuni istanti, ma mai come allora mi ero sentito più vicino a quello che è comunemente definito amore.
L’avevo praticamente capito da solo, quando quella parola mi era uscita dalle labbra in un sussurro in una delle mie crisi della sera precedente. Ero sempre lì disteso sul letto, stringendo in mano sempre quel dispositivo e il mio pugno lo stritolava, come se facendo così potessi arrivare a lei. Ed era stato allora, quando per l’ennesima volta gli occhi mi si erano inumiditi al ricordo di quello che eravamo stati, che avevo sentito il bisogno fisico di dire quelle parole, per far sì che il mio cuore malato potesse soffrire un po’ meno… Avevo fissato dritto il suo nome sul display dell’elenco contatti, avevo socchiuso gli occhi e l’avevo sussurrato, al mondo e a me stesso insieme: ”Ti amo, ho bisogno di te…”. E da allora quelle parole mi frullavano nella mente e non c’era modo di scacciarle. Avevo bisogno di lei, avevo bisogno di lei con tutto me stesso o presto non avrei più avuto la forza nemmeno di respirare: perché era questo che accadeva quando pensavo alla possibilità di non poterla rivedere mai più... Mi sentivo oppresso da qualcosa di enorme e insormontabile all’altezza del cuore e sentivo che presto quel peso mi avrebbe impedito qualsiasi soffio vitale; sentivo che sarei esploso, lì sotto e solo se non fosse arrivata lei a salvarmi.
Ed era allora che mi ritrovavo a dover fronteggiare i miei fantasmi: stare con lei significava dover fronteggiare ben altri problemi… Significava dover affrontare la realtà che –se ancora potevo- dovevo scegliere. Era tutta la notte che pensavo e ripensavo a quell’essere che cresceva da ormai oltre un mese dentro al suo ventre: un secondo mi sentivo solo voglioso di prendere le cose così come venivano, quello dopo tornavano ad affossarmi tutte le conseguenze del caso. Come avrei potuto far vivere bene quell’essere? Eppure qualcosa era cambiato rispetto a una settimana prima; c’era in me una nuova consapevolezza. Se c’era qualcosa che mi aveva sconvolto in un primo istante era anche ciò che quello comportava: un legame duraturo e perenne, eterno. Non ero mai stato portato per situazioni del genere… ma ora? Ora che sapevo di non poter sopravvivere nemmeno un’ora senza Ellie, ora che per la prima volta avevo detto quelle due semplici paroline, sapevo -volente o nolente- di volere quel legame eterno.
Forse fu quell’idea a smuovere le carte in tavola: di colpo sentii che se avessi avuto lei a sostenermi avrei potuto ottenere qualsiasi risultato. Era senza di lei che ero perso, fallito. Per quanto le cose avrebbero potuto mettersi male, per quanto non sarebbe stato nulla facile, sapevo che con lei ce l’avrei fatta.
Avrei fatto anche due lavori e l’università insieme se ogni secondo avessi potuto scriverle e dirle quanto avevo voglia di lei.
L’avevo scelto. Avevo scelto. Non potevo più fuggire ora. No, dovevo riscattarmi, dovevo dimostrare a tutti che non ero un figlio di puttana quanto lo era stato mio padre, che sangue a parte io ero diverso!
Strinsi nel pugno il cellulare: ora c’era solo un motivo di panico… Lei mi voleva ancora? Lei sentiva ancora per me? E quale scelta poteva aver già preso? Realizzai che non mi sarei perdonato di lasciar morire qualcosa che era nostro, mio e suo. Realizzai che volevo stare con lei e con quell’essere che sarebbe stato bambino più di qualsiasi altra cosa.
Realizzai che dovevo premere quel tasto e subito, che non potevo semplicemente mandare un sms. Lo feci. Schiacciai quel piccolo pulsante verde nella tastiera e attesi, pregando, io, affiché lei mi rispondesse… E non mi respingesse. Pregai perché mi ascoltasse e comprendesse. Il cuore mi batteva rapidissimo, mentre stavo ancora affossato su quel materasso in attesa di una risposta. ”tuuuuu….”: un suono confortante colpì il mio orecchio. Squillava, era già qualcosa, un passo più vicino a lei. Un passo più vicino alla mia Ellie.
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Una settimana. Mi ero data una settimana per pensarci e per decidere. In una settimana possono cambiare tante cose... in fondo l'avevo appena sperimentato, per quanto il solo pensiero mi facesse male. In una settimana ero passata dallo stare assurdamente bene a... questo. Non riuscivo e nemmeno volevo descrivere il mio stato d'animo. Era semplicemente troppo. O troppo poco, forse. In una settimana, però, dicevo, erano davvero cambiate tante cose. La settimana prima aveva visto svilupparsi quel mio dubbio, sempre di più, fino ad arrivare a quel lunedì. Era lì, naturalmente, che si era verificato il vero collasso. Per quanto lo scarto si sentisse già da prima, era allora che tutto era seriamente arrivato al punto di rottura. Tutto quello che ero convinta di avere, che sentivo quasi come dovuto, si era invece disintegrato. Era bastato un attimo per spazzare via tutte le mie certezze, sebbene in quel momento non le volessi riconoscere come tali. Solo a posteriori mi si era riversata addosso ogni cosa, insieme, ancora ed ancora, a quell'orrendo senso di vuoto e di impotenza. Ero persa. Irrimediabilmente persa.
Così, dicevo, una settimana era il termine massimo, nella mia mente, per portare o meno avanti quel peso. Era troppo poco? La mia mente diceva di sì, ma, d'altro canto, razionalmente non potevo fare a meno di notare come, in effetti, tutto fosse mutato nell'arco di una sola settimana. E poi, parlando di cose pratiche, più tempo lasciavo passare, peggio sarebbe stato poi, nel caso in cui avessi deciso di mettere fine a tutto. Quel pensiero mi attanagliava, sempre più contraddittorio e tagliente, senza darmi un attimo di tregua. Era giusto così, in fondo. In parte non potevo fare a meno di ripetermi che me l'ero cercata, che, effettivamente, era colpa mia. Mi bastava in fondo ricordare il suo sguardo per sentirmi addosso tutte quelle accuse... eppure, ogni volta che i suoi occhi mi saltavano in mente, tutto si bloccava. Faticavo persino a respirare, presa dall'ansia, dalla rabbia e soprattutto dallo sconforto. Aveva preso la sua decisione. Io avevo fatto lo stesso. In teoria. Mai più. Non ci sarebbe stato mai più niente, noi non saremmo stati mai più nulla. Era qualcosa di inequivocabile. Esattamente come quella seconda scelta che, adesso, non riuscivo a fare.
E dire che, in vita mia, sono sempre stata una persona decisa. Odio quelli che temporeggiano, ancora ed ancora, senza riuscire a fare ciò che, nel profondo, sanno già di volere. E' un segno di insicurezza bello e buono, per non parlare, poi, di debolezza. Io non ero mai stata così. Né volevo esserlo, soprattutto. Ma adesso, per l'ennesima volta, mi sentivo completamente sottosopra. Non c'era più nulla di prevedibile, almeno per me stessa, nella sottoscritta. Non dico non riuscissi a riconoscermi, ma, comunque, la cosa era diventata parecchio difficile. Tutto ciò che non ero mai stata o che, comunque, avevo cercato di non essere, adesso non faceva che tentare di fuoriuscire, peggiorando solamente le cose. Io... io cosa volevo veramente? Cosa ne sarebbe stato di me, dopo quella maledetta scelta?
Se non altro, in quanto organizzazione, ero rimasta sempre la stessa. La cosa era tragicamente ironica e, in realtà, mi metteva i brividi. Il mio metodo... era lì, a scontrarsi con quello che dovevo affrontare. Naturalmente non avevo aperto bocca con nessuno, tanto meno con i miei. Cosa avrebbero pensato? La mia era pura e semplice ingratitudine. Non mi venivano in mente termini migliori per descrivere la cosa. Ero stata un'ingrata, in tutto questo. Loro mi avevano accolta e cresciuta come una figlia, ero diventata loro figlia, in tutto e per tutto... avevano avuto fiducia in me. Ed io come li ripagavo? Cosa avevo fatto, se non la cosa più stupida del mondo? Il solo pensiero mi mandava nel pallone e mi faceva sentire sporca. Era tutto così dannatamente sbagliato... o, più probabilmente, l'unica cosa che stonava ero proprio io. Quello non era il mio posto, sebbene avessi sempre pensato il contrario. Io non appartenevo a nulla. Io, dall'alto della mia immodestia, non ero in realtà niente, se si escludevano tutti coloro che, con un gesto di pura bontà, mi avevano accolto nelle loro vite.
Mi sentivo in colpa persino nei confronti di Priscilla e degli altri amici. E' vero, non erano tanti né mai lo erano stati, ma, alla fine, anche loro mi avevano accettato per quello che ero. Tuttavia ero decisa a non farmi uscire nemmeno una parola, persino su quello che era successo. O meglio, più o meno tacitamente Prì sapeva della nostra rottura ma, chiaramente, mi ero svincolata da ogni particolare. Semplicemente non c'erano domande ed interessamenti e, soprattutto, ogni spostamento era una vera e propria fuga.
In effetti, evitarlo, in quella dannata settimana, era stato davvero difficile. Avevo tentato in tutti i modi di autoconvincermi di non volerlo vedere, pur sapendo, in fondo, che la rabbia ormai era solo tristezza. Anche solo il pensiero di poterlo scorgere, per qualche istante, mi faceva sobbalzare il cuore nel petto. Ma era una cosa stupida, stupida e sbagliata. Lui aveva preso una decisione. Io avevo preso una decisione. Non sarebbe stato più nulla. Vederlo, quindi, rientrava esattamente nelle cose tabù. Doveva essere radiato per sempre dai miei pensieri, quindi neanche i miei occhi potevano avere il privilegio di osservarlo, da lontano. Mi ero impegnata con tutte le mie forze in questo proposito e solo una volta avevo quasi rischiato di cedere alla parte più debole di me. Era lontano, dall'altra parte del chiostro. L'avrei però riconosciuto tra mille. Se ne stava lì, probabilmente a parlare con qualcuno nascosto da una colonna. Era stato difficile, lo ammetto. Dannatamente difficile. Per qualche secondo mi ero fermata, in preda al panico, incapace di andarmene. Solo quando le sue parole, arrabbiate ed inesorabili, si erano fatte spazio nei miei pensieri, avevo trovato la forza per voltarmi dall'altra parte ed allontanarmi. Fine. Basta. Dovevo piantarla, non c'era altra soluzione.
Anche questo, dunque, rientrava nel mio piano super organizzato e, in realtà, completamente tremendo. Evitarlo, cancellarlo dalla mia mente... e decidere per tutto il resto. E' vero, lui aveva deciso per noi, per me e per lui; mi aveva lasciata da sola, però, in quella che era il problema più grande. Per orgoglio, chiaramente, avrei fermamente sostenuto di voler affrontare il tutto solo in compagnia di me stessa. Tuttavia, non era affatto così. Non che volessi qualcuno che mi dicesse cosa fare, ma... non era solo un mio problema! Non ero io e basta ad aver combinato tutto. Responsabilità. Quella parola continuava a frullarmi nella mente. Aveva preso a girare ancora più forte quando, qualche giorno prima, ero andata in uno di quei centri specializzati in questo genere di, umh, contrattempi. Vergogna a parte, che ovviamente avevo tentato subito di affossare, ripetendomi che non stavo facendo nulla di strano o di male, in quel momento avevo davvero sentito il vuoto intorno a me. Ero da sola. Completamente da sola. Tutto il contrario di quello che invece sosteneva uno sparuto gruppetto di persone, lì fuori, intente a manifestare contro gli assassini che si recavano in quel posto. I loro discorsi mi mettevano i brividi e avevano continuato a torturarmi per tutti i giorni successivi. Non riguardava solo me. Non avrebbe mai più riguardato solo me.
Quel pensiero aveva cominciato a maturare molto, molto lentamente, quindi non ero nemmeno riuscita a reprimerlo, non avendone scorto il pericolo. Mi sentivo sola, chiaramente. Sola ed in colpa verso tutto ciò che, fino a quel momento, avevo avuto. Ero senza radici, senza appoggi, senza nulla. Da un certo punto di vista, non avevo mai avuto... legami. La prima volta che avevo formulato la cosa mi ero sentita tremendamente da schifo nei confronti dei miei. Certo che avevo delle radici, certo che avevo dei legami! Ma poi la solita vocina fastidiosa che di tanto in tanto si impossessava della mia mente mi aveva fatto notare come, dal punto di vista del sangue, io fossi solo una semplice nessuno. E' vero, questo, per quanto orrendo come pensiero, era vero. Qualsiasi cosa fosse, in qualunque modo volessi chiamarlo... quello era il primo, vero legame di sangue con un altro essere vivente, per me. Anzi, diciamo pure che, in tutto e per tutto, faceva parte della mia stessa persona. La sottoscritta, da sempre sola e distaccata da tutto, ora aveva realmente qualcuno che le appartenesse. O meglio, ero proprio io l'appiglio, il... punto di partenza.
Ma ancora una volta, in tutto questo, non poteva che tornarmi in mente che, in realtà, non c'era solo una parte di me, lì dentro. Che lo volessi o no, se la mia decisione fosse propesa per il portare avanti tutto questo, l'avrei avuto per sempre davanti agli occhi. Potevo costringermi in tutti i modi a non pensarci, a non pensarlo; potevo tentare di dimenticarlo con le strategie più assurde; quello che però sapevo benissimo era che, volente o nolente, non ci sarei riuscita mai e poi mai. Come in fondo accadeva sempre, con lui, la rabbia aveva fatto in fretta a svanire. Forse nell'istante esatto in cui ero scoppiata nuovamente in lacrime, forse proprio allora tutto era stato lavato via. L'avevo perso. L'avevo perso per sempre. Aveva deciso per entrambi ed io, per orgoglio, dovevo convincermi che la cosa fosse voluta anche dalla mia parte. E allora perché ogni volta che chiudevo gli occhi vedevo i suoi? Non era solo uno sguardo incazzato e teso, quello che incontravo. Non facevano che tornarmi in mente ben altre occhiate. Sguardi inequivocabili, sguardi per i quali, più o meno manifestatamente mi ero emozionata. Lui era sempre lì, tra i miei pensieri. Non riuscivo a scacciarlo e, forse, nemmeno volevo davvero farlo. Era una cosa stupidissima, ma pensandolo, almeno, una parte di me si convinceva di avere ancora qualcosa di lui accanto. Mi mancava. Mi mancava incredibilmente. Ma non potevo nemmeno dirlo a qualcuno, tanto meno a lui...
La settimana stava, in ogni caso, per scadere. Senza di lui. Non dico ci avessi sperato, ma una parte di me si era ritrovata spesso a pensarci, quando il resto era troppo stanco o assopito per prestarvi davvero attenzione. Magari... magari le cose si sarebbero modificate ancora una volta. Magari, invece di fuggirmi così come io fuggivo lui, Mark sarebbe tornato da me, proprio come aveva fatto agli albori della nostra conoscenza. Scusandosi. Tentando di fare qualcosa per migliorare il tutto. Naturalmente la cosa era così assurda da essere subito bollata come idiozia, appena il resto della mia mente riprendeva il controllo. E poi c'era sempre il fattore orgoglio. No, non avrei ceduto a lusinghe del genere. Quel che era successo era successo, ormai. Dovevo solo accettarlo ed andare avanti. Senza di lui, appunto.
Anche quella notte avevo dormito poco e niente, tra incubi, pensieri vari e malessere sia fisico che psicologico. Ormai sembrava essere diventata una costante, così come quel viso vagamente paffuto ma drammaticamente stanco che incontravo ogni volta, davanti ad uno specchio. Odiavo guardarmi, odiavo notare particolari che, probabilmente, saltavano all'occhio solo a me. Sebbene non si vedesse ancora assolutamente nulla era innegabile che il mio corpo stesse cominciando a cambiare. Era una cosa orribile, mi venivano i brividi ogni volta che vi facevo caso. La cosa più spaventosa, in tutto questo, era che, invece di essere accompagnata un'aria sana, quella floridezza andava stranamente a braccetto con un che di spiritato ed assurdo. Stavo male, dentro e fuori, e non riuscivo a nasconderlo. Non a me stessa, almeno.
Erano ore, quindi, che me ne stavo lì, senza combinare effettivamente nulla, scacciando qualsiasi tipo di pensiero. Era così difficile chiedere un po' di pace? Forse mi ero appena assopita, quando il cellulare cominciò a vibrare. Mi ci volle un po', prima che mi rendessi conto della cosa. Non ci pensai nemmeno, in quel frangente; lo afferrai, semplicemente, con fare stanco, gettando un'occhiata pigra al display. Fu questione di un secondo, perché mi svegliassi. Era davvero quel nome a chiamarmi? Quel nome che avevo tanto invocato quanto maledetto, ancora ed ancora, in quei giorni? Quel nome che avrei solo voluto dimenticare? Ma ora... ora cosa dovevo fare? Contraddittoriamente, una parte di me era convinta di doverlo ignorare, data la decisione presa; e... l'altra? L'altra cosa voleva? L'opposto, chiaramente. Una flebile speranza, lontana e minuscola, si era pur sempre riaccesa.
Il telefono continuava incessante a vibrare, facendo notare la sua presenza e il tempo che passava. Maledetto tempo, ormai era un tormento! Razionalmente, buttare giù o non rispondere si sarebbe solo mostrato come un segno di debolezza. Non era questo quello che volevo. Dovevo essere forte. Dovevo dimostrargli e dimostrarmi di potercela fare.
Così, con un gesto secco, accettai la chiamata, prendendo un gran respiro. Marcus.” esordii, andando a ricercare il tono più acido e distaccato di cui fossi capace, in quel frangente. “Pensavo avessimo, avessi preso una decisione.”
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Non avete idea di cosa può provare un uomo in momenti come quelli: sentivo di avere avuto tutto tra le mani e di averlo lasciato sfuggire stupidamente via… e sentivo di doverlo riconquistare, costasse quel che costasse. Volevo parlarle, dovevo farlo, per me e per noi, perché non era stata certo lei a scacciarmi via quel giorno, ma io stesso l’avevo indotta a farlo. Mi odiavo ripensando al modo spregiudicato in cui avevo agito, fregandomene di come lei potesse soffrirne e fregandomene soprattutto della condizione in cui la lasciavo. Come avevo potuto agire in modo tanto menefreghistico, dimenticandomi che i casini li avrei avuti io, certo, ma su di lei si sarebbero concentrati evidentemente tutti… Avevo addirittura dato la colpa a lei per non esser stata attenza, ma cos’ero stato io? Un idiota incapace di pensare? Anche io avevo voluto quell’irruenza, anche io non mi ero posto problemi di sorta, perché lasciarmi andare al piacere del momento era stato troppo appagante… Se ci ripensavo, mentre quel telefono all’orecchio continuava a suonare a vuoto, mi venivano i brividi. Quella sera, per grazia di non so cosa, avevo ricevuto quel bacio così istintivo sulle mie labbra, quella scelta che mi aveva scosso, risvegliandomi dall’inconsapevolezza – o forse dovrei dire incoscienza – in cui ero. Avevo risposto quasi meccanicamente al suo approccio, prima di realizzare quanto tutto fosse estremamente giusto, quanto volessi lei e il suo corpo e non solo la sua amicizia… Ora si aggiungeva un altro fattore… Finora avevo lasciato – se così si può dire – tutto a un livello più superficiale: non che non me ne fregasse niente di lei, ovviamente sentivo di provare affetto per lei, ma non avevo mai davvero realizzato quanto la cosa fosse profonda e radicata. Ora sentivo di poterlo dire apertamente, che non volevo solo la sua amicizia, il suo corpo… volevo il suo cuore, interamente e solo per me. Nessun’altro avrebbe potuto avere il diritto di condividerlo, così come ormai io avevo capito che il mio cuore non poteva esser riempito da nient’altro che riguardasse lei… La mia mente, il mio cuore, ormai esistevo solo in funzione di Ellie, positivo o negativo che fosse. Da quando avevo chiuso quel portone dietro le mie spalle la solitudine e la desolazione mi avevano attanagliato come mai mi sarei aspettato, forse perché finora non avevo mai davvero saputo cosa significasse tenere a una ragazza al punto da sacrificarsi per lei, dare qualsiasi cosa per il bene dell’altra: ora sentivo di non aver scopo e futuro se non potevo condividerlo con Ellie, sentivo che non avevo nemmeno più forma… E’ tremendamente limitante e forse a qualcuno potrà sembrare anche che la dipendenza che mi legava a lei sia qualcosa di infantile e malsano, ma non è così.
Ora finalmente capivo… Non sarei stato mai più completo, non sarei mai stato più Mark se non avessi avuto lei al mio fianco, perché lei ormai comprendeva una parte del mio essere .
Non era solo un’avventura e una parentesi della mia vita… Lei era diventata la vita. E ora pienamente incarnava tutto questo, dato che una parte di me era proprio dentro di lei, in quella creatura che mi aveva messo addosso tanta paura.
Non sentivo più quella paura ora: avrei davvero fatto tutti i sacrifici del caso, se qualcuno mi avesse permesso di tornare a stringerla tra le mie braccia.
Ho vissuto una vita credendo di non aver basi né radici, sentendomi comunque privato di una parte della mia famiglia, perché quando ti chiedono banalmente di disegnare tuo padre e tu non puoi perché te ne vergogni non è piacevole… Avevo temuto di non essere pronto a esser la stessa cosa per un altro bambino, ma fuggendo che cosa avevo fatto? Lo stesso. Avevo agito vigliaccamente, privandolo già in partenza di un padre. Sospirai… Se ne avessi avuto la possibilità, quella volta mi sarei messo in gioco, avrei regalato a quell’essere il padre che anche io non avevo avuto. Per quanto ne sapevo, nessuno mi aveva spiegato che cosa volesse dire amare, ma ora l’avevo capito e percepito benissimo grazie a Ellie…Sarebbe stato così anche con quella creatura che era solo nostra quindi… Avrei imparato a amarla e l’avrei fatto come meglio potevo, per noi.
Ci sarebbero stati momenti duri da affrontare, ma insieme si potevano superare: ora il punto era… Mi avrebbe risposto? Avrebbe permesso che tutto questo si realizzasse? Mi avrebbe concesso una seconda chance dopo il dolore che le avevo dato e la delusione, soprattutto?
Dal nulla emerse finalmente la risposta: aveva risposto! Istintivamente mi raddrizzai meglio a sedere sul bordo del letto, sospirando per l’emozione e rilasciando parte dell’adrenalina che avevo accumulata nell’ansia di una sua non risposta.
Ma no, aveva tirato su, mi aveva appena parlato! Le labbra mi si incurvarono appena in un sorriso, sebbene il nodo perenne alla gola che mi attanagliava da giorni le facesse tendere sempre al basso: era assolutamente lei, in tutta la sua essenza. Non riuscii a esser ferito dalla sua risposta con quel nome pronunciato freddamente per intero… Anzi, da un latola appoggiavo: meritavo quello e anche peggio. Era nella sua natura rispondere così, me lo ero aspettato… Era sempre la mia Ellie, dopo tutto… E in questo c’era un ché di confortante, lo ammetto.
Per di più, quel modo di chiamarmi mi ricordò subito del mio primo errore, della mia prima bugia… e della mia prima scusa… Quella volta… Il nostro primo appuntamento, sebbene non volessi chiamarlo così, né davanti a lei, né tra me e me. Se chiudevo gli occhi riuscivo ancora a focalizzare com’era vestita quella volta, come l’avevo trovata ad attendermi davanti al locale stabilito, impaziente, in senso totalmente negativo ovviamente… Ero sempre in ritardo.. sempre… Eppure quella volta fui anche puntuale. Chissà, forse significava già allora qualcosa, nel mio maledetto inconscio. Era lei la persona per cui avevo deciso di umiliarmi chiedendo scusa, io che non lo chiedevo mai. Ogni volta che facevo qualcosa di sbagliato con lei era istantaneo il senso di colpa, lo era sempre stato… Ma quella volta lei aveva fatto lo stesso… Anche lei aveva vinto se stessa accettando le scuse e piegandosi a ciò che l’istinto le diceva di me… Posso dirlo a posteriori… E poi quella volta in cui sconsolata era venuta da me, quasi in lacrime, quelle stesse lacrime che già allora mi facevano male a vederle sul suo viso e che poi io stesso avevo fatto scorrere…
Mi veniva a mia volta l’ennesimo magone al solo ricordo di tutto quello. Dio, quanto avrei solo voluto stringerla a me… Dirle che andava tutto bene, che niente sarebbe cambiato rispetto a prima, che ero lì, sempre, con lei.
“Pensavo avessimo, avessi preso una decisione.” mi disse sempre con un’ironia che sapevo celare molto di più, persino fragilità.
Era vero in fondo… Ero stato io a scegliere male e per entrambi… o forse no? Forse lei aveva preso la sua scelta indipendentemente da me? Ad ogni modo, qualsiasi cosa pensasse ora, dovevo farle capire che cosa io sentivo e pensavo… E quanto odiassi gli altri pensieri che avevo formulato in quello stato di pazzia e sconforto.
”Lo so, Ellie, ma… devo parlarti. Ti prego. ” un silenzio seguì quella mia preghiera e in quel silenzio mi ritrovai a pronunciare di nuovo quelle parole, quasi senza accorgermene, solo per tenere un contatto con lei, come se tacendo potessi far morire tutto: ”Ti prego… ti prego, io ho bisogno di chiarire.” … E soprattutto, anche se non volevo dirglielo così, per telefono, perché mi sembrava tremendo, avevo bisogno di lei.
”Dammi solo una possibilità di incontro… Solo una… poi se vorrai non ti tormenterò più.”. A questo punto mi bloccai di botto, anche perché la mia voce rischiava di incrinarsi in modo tremendamente patetico e io non volevo la sua pietà, ma il suo amore.
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Il tempo è relativo. Quest’affermazione è stata sfruttata così tante volte che, ormai, non ha più tutto il significato iniziale. Certo, è vero, però, che continua comunque a mantenere una sua importanza, se vogliamo. Chiunque lo prova sulla propria pelle, prima o poi. Anzi, sicuramente spesso e volentieri si abusa di questa idea. Tutto ci sembra scorrere ora troppo in fretta, ora in maniera odiosamente lenta. Ed io? Io che tanto odio le generalizzazioni e le banalità, cosa avevo fatto però in quei giorni, se non cadere direttamente in mezzo a considerazioni di questo genere?
Per certi versi, mi sentivo appena giustificata. Il tempo era davvero essenziale, per me, ora. Ogni cosa doveva essere calcolata, tenuta sotto controllo… e tutto scorreva al contempo veloce e lento. Mi sembrava fossero passate ere da quando tutto era successo, o anche solo da quell’orrendo inizio settimana. Per il resto, invece… sentivo di avere i giorni contati. Anzi, era così. Più il tempo passava, meno possibilità mi rimanevano. Dovevo pensare, dovevo decidere, dovevo… andare avanti. Peccato, però, che mai qualcosa mi fosse sembrato più difficile. Io, che più o meno implicitamente mi ero vantata in svariate occasioni della mia fantastica capacità decisionale, adesso ero solamente terrorizzata. Anzi, sola e terrorizzata. Non volevo giustificarmi, però, da quel punto di vista. Sapevo di dover agire in altro modo. Avevo persino elaborato una sorta di strategia, se vogliamo chiamarla così.
Cercavo di impormi, insomma. Di fare in modo che Ellie ed Eloise diventassero due entità distinte, così com’era giusto che fosse. Fin dall’inizio… l’avevo sempre pensato, alla fin fine, no? Era emersa una parte di me diversa, lo ammetto, una me che nemmeno io conoscevo a fondo… era lei, era stata lei dannazione a mettersi nei casini! Da sempre! Eloise non voleva. Eloise ero io, la me di sempre, quella che tutti conoscevo e che la sottoscritta, in primis, sentiva come sua. L’acida, l’antipatica, la bacchettona… tutto quello che volete insomma, caratteristiche che, naturalmente, ho sempre esaltato, nel mio orgoglio, come più che positive. Ellie… cosa dire di lei? Abbiamo detto che i casini erano scaturiti dal suo modo di fare. Nulla di più vero. Era stato lui a tirarla fuori, passo dopo passo. Non si sa come o perché, si era comportata in modo subdolo. Non aveva infatti tentato di soppiantare violentemente Eloise, facendosi spazio tra i miei pensieri; il suo era stato un agire soffuso, qualche che, passo dopo passo, aveva attecchito senza troppi complimenti fino, chiaramente, a portare il tutto a conseguenze inimmaginabili.
Certo, c’era anche quella sciocca parte, in bilico tra le due metà, che sosteneva come, in determinati, umh, momenti, Ellie ed Eloise si fossero davvero fuse, portando avanti desideri ed istanze comune ad entrambe. Potevo cercare di negarlo in tutti i modi possibili ed inimmaginabili, ma, è vero… è vero che buona parte di quello che era successo, con Mark, era da imputare a tutta me stessa. Tuttavia, trovavo ben più facile ed indolore cercare di relegare quello che sentivo a quella nuova ed ancora sconosciuta me. Anche il problema era sostanzialmente suo, visto che era stata lei a muoversi in un determinato modo… il punto, però, era che quel casino stava andando ad intaccare anche Eloise. Il mio processo di scissione, quell’operare una vera e propria separazione in quella che, in realtà, doveva essere una versione ben più amplia e completa di me, era un’operazione tanto masochista quanto inutile. Ma cosa avrei dovuto fare? Arrendermi alla realtà? Mostrarmi… debole?
Già, era così che mi sentivo. Sotto tutti i punti di vista. Ad un livello meramente fisico, giorno dopo giorno fare qualsiasi cosa mi costava sempre più fatica. Ovviamente, poi, a pensarci le cose non facevano che peggiorare. Svegliarsi già di cattivo umore, dopo aver dormito poco e niente, ed affrontare un’intera giornata come se niente fosse… cercavo di non concentrarmi sul tutto, ma come avrei potuto? Tutto era davanti ai miei occhi. Sempre. A partire da quei cambiamenti che mi facevano paura e che, per ora, erano percepibili solo dalla sottoscritta. Non volevo nemmeno immaginare cosa sarebbe successo se… era orribile, completamente. Se il disagio, volendo chiamarlo così, si fosse ridotto solo a questo, però, probabilmente avrei affrontato tutto a testa alta. Naturalmente è quello che tentavo di fare, ma, arrivata a sera, non era poi così facile. Quando, effettivamente, tutto si spegneva, intorno a me, quel senso di vuoto e al contempo di oppressione cominciava ad attanagliarmi più forte, lasciandomi faccia a faccia con le mie paure e miei dispiaceri. Si mescolavano alla stanchezza, quei rancori, gettandomi nello sconforto più totale. Io stessa non riuscivo a capacitarmene, pur sapendo che non era solo Ellie a reclamare quella presenza. Erano quelli i momenti in cui, tolta di mezzo la razionalità, mi rendevo perfettamente conto di quanto quel mio stesso tentare di agire in modo freddo e calcolato non servisse a nulla. Era una battaglia persa in partenza…
Assurdamente, in tutto questo, il pensiero di lui riusciva a calmarmi. O meglio, in un primo momento mi faceva salire la rabbia; poi arrivava lo sconforto; il senso di abbandono… però, infine, subentrava quell’ultima, amara consapevolezza. Lo vedevo quasi come un’entità lontana, qualcosa di ormai del tutto impalpabile. Una sorta di… ricordo, ecco. Così come prima l’avevo quasi mitizzato, nella mia testa, senza nemmeno rendermene conto, ora la sua immagine si faceva contemporaneamente chiara e sfumata. Mi sorgevano in testa anche le domande più stupide, nei suoi confronti. Mi chiedevo cosa stesse facendo, cosa sentisse, in quel momento. Tutte cose idiote che, in condizioni normali, mi sarei rimproverata. Adesso, invece, assumevano un che di malinconicamente dolce, facendomi quasi illudere di avere ancora, intorno, una parvenza di normalità. Pur rendendomi conto della stupidità della cosa, non riuscivo a farne a meno. Il suo pensiero era, al contempo, un rifugio sicuro, ma anche il peggiore dei miei mali.
Una parte di me continuava a sentire il bisogno di incolparlo; quella stessa parte che relegava ad Ellie tutto lo strazio che provavo dentro, nei suoi confronti. Era stata lei quella stupida. Era lei la parte da epurare, la me non degna di andare avanti. Eppure, guardandola, mi rendevo conto di non essere mai stata così… umana. Era lei a rendermi tale, lei e le sue debolezze, le sue preoccupazioni… e, d’accordo, in primis il suo sentimento. Non era un non volerlo chiamare per nome, il mio. O forse, in parte, è vero, avevo questa tremenda paura. Non poteva… non poteva nemmeno essere, insomma! Non dopo quello che era successo, non dopo quello mi aveva fatto… giusto? Volevo davvero pensare che fosse così. Eppure quella serie di pulsioni a dir poco contraddittorie che continuavano a tormentarmi sembravano davvero sostenere il contrario. Però, io, che ne sapevo? Non mi ero sempre professata del tutto incapace di… sentire certe cose? Perché, adesso, nella mia testa era in atto un combattimento? Non volevo diventare la tipica eroina sconfitta di un qualche sciocco romanzetto rosa… anche perché lì, alla fine, c’è sempre un happy ending.
Tragico parlare di certe cose. E da voltastomaco, anche. Ma era vero anche questo. Nella vita non ci sono lieti fine. Specie nella mia, ora come ora. Non c’era nulla, davanti a me, se non un futuro incerto e fumoso. Tutto quello per cui avevo lavorato si stava già sgretolando, rivelando l’effimerità di ognuno dei miei gesti. E’ vero, era ancora tutto nelle mie mani… c’era un bivio, davanti a me. Sembrava quasi volessi crogiolarmi, in quel limbo. Perché farla tanto tragica, se la possibilità per sfuggire era ancora lì, così vicina? Era come se una parte di me sapesse già la risposta. Ma non volevo essere tanto stupida. Non sarebbe stato… da me.
In quella continua lotta tra razionalità e irrazionalità, il telefono aveva preso a suonare. La successione dei miei gesti era stranamente chiara e pulita, nella mia testa, ma… adesso? Gli avevo risposto, senza nemmeno rifletterci troppo su. Una vocina maligna nella mia testa mi dava dell’idiota, dato che, appena riagganciato, mi sarei crogiolata nell’idea di aver sentito la sua voce… ma non importava. O almeno, non adesso. Perché l’aveva fatto? Magari si era sbagliato… dopotutto, non era forse sua la colpa? Forse non era così intelligente e pronto come avevo sempre voluto credere. Probabilmente, anche questa, era una semplice mancanza. Non si sa come, però, ero riuscita a rispondere in modo normale. All’incirca, ecco. Ancora non avevo sentito la sua voce, in effetti. Era solo la mia a rimbombarmi nelle orecchie, carica sì di sarcasmo ed acidità, ma… anche tremendamente meccanica. L’aveva percepito anche lui? Mi auguravo di no…
Così, adesso, era calato il silenzio. Probabilmente fu questione di qualche attimo, ma mi parvero davvero ore. Ero scivolata piano a sedere, dalla posizione rannicchiata di poco prima, quasi come se quella maggiore altezza potesse aiutarmi a riflettere. Di colpo, il mio stomaco prese a fare le capriole. Nel momento stesso in cui lo sentii attaccare, l’agitazione mi raggiunse, in bilico tra la rabbia e la felicità. Potevo tentare di negarlo in tutti i modi, ma sapevo di averne bisogno. Anche solo ascoltare il suono delle parole pronunciate da lui, di qualunque natura fossero… eppure, ben presto subentrò il suo tono. E, effettivamente, ciò che voleva comunicarmi. A differenza mia, la sua voce aveva un che di strano. Nulla a che vedere con la sua solita imperturbabilità. Forse ci stava provando, questo sì… ma ingannare me? … No, non ci sarebbe riuscito. E soprattutto… mi stava pregando? E voleva parlarmi?
Non riuscii a capacitarmene. Stavolta il silenzio fu colpa mia. Ma fu lui, di nuovo, ad interromperlo. “Ah, così tu ne avresti bisogno?” fu la prima cosa che riuscii a dire, con tono ben più scontroso e, forse, meno macchinoso rispetto a poco prima. Era lui che credeva di avere bisogno? Lui? E io che cazzo avrei dovuto dire, eh? Chi era nei casini fino al collo, tra noi due? Chi era rimasta completamente da sola? Presi a tormentarmi le labbra, come al solito a causa del nervosismo, contenta, se non altro, che non potesse vedermi. Fremevo di rabbia e di paura, ma anche di emozione…
“Perché dovrei farlo?” tornai a sbottare, sperando che a prevalere fosse sempre l’indignazione. La me preoccupata doveva rimanere lì, nell’ombra, senza contagiare tutto il resto. La mia voce non doveva assolutamente imitare quella di lui. Non doveva… incrinarsi. “Potrei aver già sistemato ogni cosa, così come hai fatto tu!” Ecco, l’avevo detto. Perché mi fosse uscito non lo so, ma, è vero, un minimo di sadismo, in tutto questo, c’era. Perché dovevo starci male solo io? Non era forse giusto che quel peso fosse sostenuto da entrambi? Lui aveva cercato di scaricare tutto, ma adesso, non si sa come o perché, tornava con la coda tra le gambe… “Cosa c’è? Ti senti in colpa? Pensavo fossi tu quello stufo di essere tormentato… D’altronde, non è un tuo problema, questo, giusto?” Parlargli in quel modo era l’unica difesa che ancora mi era rimasta. Non dovevo cedere, non dovevo lasciar trapelare quella dannata debolezza che, adesso, non faceva che gridare il suo nome…
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D: questa role, anche se triste, mi piace un sacco!
 
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Working on a dream
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Mark Pace
«We're just two lost souls swimming in a fish bowl,
year after year, running over the same old ground»
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"Perché dovrei farlo?” Lo riconosco, la sua era una domanda più che legittima: che diritto potevo avere ora di tornare e pretendere ciò a cui avevo chiuso la porta in faccia, apparentemente così a cuor leggero? Certo, il problema era che non l’avevo assolutamente fatto a cuor leggero, ma la colpa risiedeva tutto in quell’istinto di terrore che mi aveva attanagliato quando avevo appreso tutto così d’impatto. Il punto era anche quello, probabilmente avrei agito diversamente se avessi avuto modo e tempo di rifletterci, esattamente come avevo poi fatto a posteriori; mi dicevo che lei dopo tutto aveva potuto prendersi le sue pause prima di averne la conferma, mentre per me tutto era giunto perentorio e improvviso. D’altra parte sapevo che nulla mi giustificava dall’aver agito da stronzo, punto e basta. Per quanto scosso e impaurito non avrei mai dovuto reagire così, specie davanti a lei, che doveva comunque esser scossa quanto me. Lo so, avevo peccato di egocentrismo nel sostenere che per lei nulla sarebbe cambiato: anzi, probabilmente la parte più d’impatto la subiva lei, io sopportavo solo di riflesso…
Eppure, lì, all’improvviso, vi assicuro che pochi sarebbero stati in grado di reagire diversamente. Ero diventato padre in un secondo: lo so, tecnicamente è sempre così, ma spesso alla consapevolezza precedono decisioni, scelte comuni, ragionamenti. Ecco, se c’era qualcosa che potevo rimproverarle era il non avermi reso partecipe del processo ma solo del risultato finale, non solo perché avrei avuto modo di supportarla,passo dopo passo, ma perché così saremmo stati davvero pari, avremmo potuto affrontare ogni cambiamento e progresso di scoperta insieme: mi ero sentito escluso da tutto quello, come qualcuno che viene chiamato per ritirare un pacco e poi può anche decidere, se vuole, di lasciarlo lì.
Ovviamente capite anche voi che non era una situazione facile e magari anche così avrei reagito da merda, perché – appunto – non ero pronto a agire da padre, non tanto su un piano personale, ma soprattutto economico! Quella era la paura che mi aveva inseguito sin dall’inizio di fatto ed era anche uno dei motivi per cui ora tornavo sui miei passi, o almeno ci provavo, con un po’ di aiuto e fortuna. Stavo per risponderle qualcosa di totalmente spontaneo e pensato al momento quando una sua seconda affermazione mi zittì, facendomi fermare, vi giuro, anche il sangue nelle vene. Non avevo contemplato l’opzione di quel tipo… In qualche modo mi ero convinto che il tempo si fosse fermato a quando l’avevo mollata lì a casa, perché di fatto per me era stato così: il mio mondo si era chiuso su quel palcoscenico e ora aspettavo dietro le quinte,senza sapere se vi sarei stato più riammesso… Il punto era che ora la cosa mi feriva doppiamente, sia perché significava davvero volersi liberare di me e di qualsiasi legame con me, sia perché…sentivo che una parte di noi era appunto in quell’essere che lei portava con sé. Era questo soprattutto a spingermi ora a un’opinione opposta rispetto alla paura precedente, era proprio la consapevolezza che se quello era lì era perché noi ci eravamo amati… O almeno, io la amavo ora e ne ero certo al mille per mille. Basta fingere di chiamare le cose con un nome che non le era proprio: tenevo a Ellie con tutto me stesso e anche a quel bambino, sì, l’avevo davvero chiamato così, che in teoria avevamo… Ma l’avevamo ancora appunto? La sua voce non aveva inflessioni, non riuscivo a capire se fosse solo una minaccia rabbiosa o qualcosa di vero e conreto… E d’altra parte temevo a aprire ancora la bocca, perché in un certo senso si stava riducendo sempre tutto a questo: che diritto avevo effettivamente su di lei e sul bambino? Li avevo abbandonati quando avevano bisogno di me… e ora tornavo lì con la coda tra le gambe, pretendendo che tutti si dimostrassero subito d’accordo con me e i miei cambi di umore.
Forse il mio silenzio peggiorò solo la situazione ai suoi occhi, ma, cavolo, la mia mente non riusciva nemmeno ad elaborare una situazione che subito tutto tornava a ribaltarsi e le carte dovevano essere di nuovo mischiate e rimesse in gioco…
Ora quella voce così secca e fredda cominciava a farmi male, per colpa di quella allusione a una sua scelta di farla finita…
“Cosa c’è? Ti senti in colpa? Pensavo fossi tu quello stufo di essere tormentato… D’altronde, non è un tuo problema, questo, giusto?” Sentirmi dire quelle parole, poi, fu devastante, perché mi fecero davvero comprendere fino in fondo che cosa dovevo averle fatto provare agendo tanto da idiota!
”Ellie, non è senso di colpa!” dissi d’istinto, cercando di non alzare troppo la voce, parte per non atterrire lei, parte per non far sentire a altre orecchie indiscrete, sempre in allerta come quelle di mia zia, la mia conversazione. ”O meglio, mi dispiace da morire per quello che ho fatto… Ma se ti chiamo non è per sentirmi la coscienza a posto. E’ anche mia responsabilità dissi cambiando così termine rispetto al suo problema ”… ma di nuovo, voglio parlare con te, perché sei tu, non per qualche problema etico ok? ” Il cuore mi batteva fortissimo in cuore, mentre pregavo, con tutte le mie forze, che no rifiutasse almeno quell’incontro… ”E’ solo una chiacchierata e poi se vorrai potrai chiudermi la porta in faccia per sempre… Persino darmi uno schiaffo dal vivo, me lo merito… Ma lascia che ti parli…”
Attesi un attimo poi nel silenzio aggiunsi ancora: ”…Comunque… non l’hai fatto, vero? Dimmi che è così…”. Non riuscii a trattenermi; riuscii a andare di nuovo oltre ai limiti razionali che mi ero imposto di non dire niente, di lasciarle piena libertà: mi sembrava di star correndo una corsa contro il tempo, di doverla fermare prima che fosse tardi, come se io avessi capito qualcosa di più e fosse solo questione di tempo perché lo percepisse anche lei. Il punto era che per allora avrebbe potuto pentirsene ed io non lo volevo… Incrociai davvero le dita delle mani attendendo la sua risposta… E dentro la mia mente continuavo solo a sussurrare a me stesso quel ”ti prego” che prima avevo esternato… Volevo esser forte, ma mi sentivo fragilissimo a contempo. Ero nelle sue mani, questo mi sembra chiaro, ma era giusto così, anche perché di fatto mi sentivo e volevo sentire così.
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Wow, grazie mille Ale, mi fa tanto piacere! *___*
 
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view post Posted on 3/5/2012, 21:58
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Ahah, grazie Ale *///* questi due sono tragici, pfff :cuore2:


elliepost11
eloise hawking
« Come on in, I've gotta tell you what a state I'm in,
I've gotta tell you in my loudest tones that I started looking for a warning sign. »
¬ student – wearing () - listening () - who i am ()
Cos’avrei dovuto fare? Davvero, non riuscivo a non chiedermelo. Ma non volevo nemmeno, naturalmente, aiuti dall’esterno, come al solito. Non solo la cosa sarebbe stata tremendamente inutile, ne ero sicura, ma… avrei solo dimostrato una debolezza che non mi apparteneva, così facendo. O almeno, questo era quello che avevo sempre voluto pensare. Durante la mia vita mi ero convinta di essere una persona forte, salda, sempre capace di prendere le decisioni giuste al momento giusto. Non era forse stato così, fino a quel momento? Mi ero sempre dimostrata all’altezza di qualsiasi aspettativa, specie, in primis, delle mie. Ero io quella che, soprattutto, non doveva essere delusa. Ero io che mi prefiggevo certi obiettivi, con ambizione e sicurezza. Puntualmente, mi sembra chiaro, riuscivo ad ottenere ciò che mi ero ripromessa. Ma questo, appunto, non era dovuto al fatto che fossi io stessa a mettermi davanti quelle mete. Spesso, quando decidevo di esporre le mie idee agli altri, mi ritrovavo davanti facce stupite o quant’altro. Non che non credessero in me, ma, quasi sempre, i miei traguardi erano fin troppo ambiziosi, agli occhi di chi ritenevo ben più comune, rispetto alla sottoscritta. Vederli quindi soccombere, sotto allo stupore finale, era quindi l’ennesimo incentivo per realizzare ciò che volevo, oltre, naturalmente, al ben più importante peso che aveva, nel tutto, la mia stessa decisione.
Peccato, però, che tutte queste certezze fossero crollate, al pari di quelli che mi guardavano sorpresi, in precedenza, per colpa sua. No, non sono una scaricabarile. D’accordo, solo un pochino, forse, ma l’ho sempre fatto… per pura sopravvivenza, ecco! Non vale forse la legge del più forte? Siamo sempre allo stesso punto. Io mi sono sempre ritenuta uno degli elementi più resistenti, in questa giungla di mondo. Eppure… eppure gli era bastato davvero poco, per farmi soccombere. Mi chiedevo davvero come fosse possibile… quante volte avevo ragionato sulla cosa, senza arrivare ad una soluzione accettabile? Avevo lasciato che indebolisse la mia corazza, giorno dopo giorno, sorriso dopo sorriso, lasciando che quegli occhi chiari che adesso vedevo, ogni volta che chiudevo gli occhi, cominciassero a scrutarmi dentro, causando danni che mai mi sarei immaginata. Come avevo fatto ad arrivare a tutto questo, davvero, non lo sapevo. L’unica cosa sensata da fare, oltre ad analizzare il tutto, era appunto imputare il problema a lui. Era lui che mi aveva resa debole, naturalmente. Aveva aperto una faglia, in me, dal quale tutto aveva cominciato a passare, sia verso l’esterno, che, soprattutto, verso l’interno. La cosa assurda, in tutto questo, era che non mi sentivo davvero cambiata. Non mi pareva di… essere diventata un’altra persona. Ero sempre io, in un modo o nell’altro. Per quanto cercassi di convincermi della divisione Eloise ed Ellie, sapevo che, in realtà, quelle due presenze non tanto convivevano in me, in modo più o meno pacifico… erano loro. Erano esattamente la stessa persona.
E adesso, quella persona, si sentiva tremendamente scossa dalla sua voce. Se non altro, certo, ero riuscita a rispondergli in un certo modo, rendendo orgogliosa la parte più vendicativa di me. Gli stava solo bene, pensavo. Si meritava di sentirsi male a sua volta. Ma poi subentrava altro… forse aveva già sofferto, in quei giorni, proprio come avevo sofferto io. Sicuramente l’aveva fatto, diceva Ellie, del tutto convinta di dover rispondere positivamente a quella sua… preghiera. Non potevo farlo, però. Il mio orgoglio era totalmente contrario alla cosa. Non se lo meritava, questo. Non mi aveva forse abbandonata, così, su due piedi? Non mi aveva lasciata sola? Sola, certo, ma anche in compagnia del… come chiamarlo? Non volevo usare quel termine, nemmeno nella mia testa.
Perché? Beh, era molto semplice. Le poche, d’accordo, pochissime volte in cui avevo tentato di ipotizzare un futuro che comprendesse anche ciò che si nascondeva lì, da qualche parte, dentro di me, non ero nemmeno riuscita a focalizzare il tutto. La cosa, naturalmente, mi spaventava parecchio. Ho sempre avuto una fervida immaginazione. Sempre. Non ho mai avuto problemi ad immaginare qualsiasi cosa. Ma questo… questo, evidentemente, non era minimamente previsto dalla mia mente. Non riuscivo a vedermi con un fagotto più o meno informe, tra le braccia. Non riuscivo a vedermi come una madre.
Era forse così sbagliato? Quasi tutto il mio essere mi diceva di no. Era pur sempre qualcosa che non avevo scelto, né minimamente previsto. Perché mai avrei dovuto accettarlo così, a cuor leggero? Pondo le mie decisioni, lo faccio sempre. Questa, invece, mi era piovuta addosso così, senza il minimo senso. E poi… Mark non aveva forse fatto lo stesso, decidendo di andarsene? Lui aveva già fatto la sua scelta. Non si sentiva un padre. Giustamente, diceva malignamente il mio cervello. Giustamente, già. Lui non si sentiva un padre e io non mi sentivo una madre. Non riuscivo nemmeno ad immaginarla, quella creatura, se mai sarebbe stata.
Tuttavia… c’era sempre qualcosa, nella mia testa, qualcosa di piccolo ma di fastidioso, che mi ricordava un certo particolare. Qualcuno doveva aver affrontato una situazione del genere… per me. Oh, è inutile negarlo: doveva essere successo esattamente così. Una nuova vita, chiamiamola in questo modo, d’accordo, del tutto non programmata… eppure, non era stato scelto di farla finita, di metterci una croce sempre, dimenticando per sempre tutto. Ero lì a testimoniarlo, in fondo. Anche io ero frutto di qualcosa del genere, con tutta probabilità. Era quasi una questione di onore, di… rispetto verso me stessa, prima di tutto. Non sarebbe forse stato egoistico, comportarmi in modo contrario a come invece qualcun altro si era comportato con me?
Rispondergli in quel modo tanto ambiguo e tagliente, però, mi venne del tutto naturale. Tanto, in fondo, che gliene importava? Lui la sua scelta l’aveva già fatta, con o senza di me. Il solo pensiero, al contempo, mi disgustava ed inorgogliva. Anche il mio senso decisionale, prima, mi avrebbe portata a fare una cosa del genere… d’altro canto, però, come aveva potuto essere tanto spregevole? Io… io mi ero pur sempre convinta di contare qualcosa, per lui.
E dunque eccoci di nuovo qui, a quella telefonata. Per quanto in me si agitassero pulsioni contrastanti, se non altro, per ora mi ero comportata in modo più che impeccabile, senza deludere i miei standard. Meglio ignorare quello che sentivo dentro… soprattutto perché, ancora, il suo della sua voce mi faceva quell’effetto assurdo e contraddittorio. Gli avevo rovesciato addosso, in minima parte, la mia rabbia e la mia delusione. E adesso lui era in silenzio. Cosa c’è? L’avevo forse spaventato? Non era forse questo ciò in cui avevo sperato, fin dall’inizio? Quella prima volta, al bar, avevo davvero tentato di allontanarlo con i miei modi taglienti ed acidi, sperando, appunto, che se ne andasse, impaurito dalla mia presenza tanto insopportabile. E invece era rimasto lì. Rendendomi così stupidamente ed odiosamente dipendente da lui. Infine, eccomi nuovamente sola. Ancora una volta, per una sua, orribile, decisione.
Strinsi forte le labbra, a quel ragionamento, cercando di ricacciare indietro quel senso di nausea che continuava a tormentarmi. Le orecchie mi ronzavano, per il troppo silenzio; o almeno, fino a quando lui non si decise a rispondere. Non era senso di colpa? Ma chi voleva prendere in giro? Stavo già per ribattere, quando quel responsabilità mi colpì, in pieno petto. Già, responsabilità… era esattamente questo il punto. Quella che né lui, né io, sembravamo avere il coraggio di prendere… “Parli proprio da avvocato…” commentai tagliente, interrompendolo per un istante, cercando di tornare al modo di poco prima, per quanto, in realtà, mi sentissi del tutto colpita, ancora, da quella semplice parola. Non dovevo però farmi abbindolare così. Sapevo di avere ragione. E lui non si meritava la mia attenzione. Non più, almeno. Non dovevo pensare a quell’enorme vuoto che sentivo dentro, per quanto, paradossalmente, ora fossi molto più in compagnia di quanto non lo fossi mai stata.
Uno schiaffo? E questa? Mi concessi una risata, spezzata, più amara e sarcastica che realmente divertita. Se avessi davvero voluto colpirlo avrei fatto di peggio, molto di peggio… ma l’unica cosa che riuscivo a focalizzare, pensando di trovarmelo davanti, era gettarmi tra le sue braccia, in cerca, insensatamente, di conforto. Ma non ero una di quelle persone! Non ero così… fragile. Giusto?
“… non l’hai fatto, vero? Dimmi che è così…” Se un istante prima avevo quasi riso, seppure in modo acido e del tutto fastidioso, adesso mi ammutolii, finendo inconsapevolmente per trattenere il fiato. Avevo sentito benissimo. Mi stava esplicitamente chiedendo se… mi morsi le labbra, andando totalmente nel pallone. Non era forse questo che una piccola parte di me reclamava? Il suo non volermi abbandonare… in quel frangente? Ma non l’aveva forse già fatto? E allora perché quella domanda? Per quanto sciocco e totalmente estraneo al mio modo di pormi, nei confronti del mio problemino, abbassai piano gli occhi, osservandomi. Era lì. Probabilmente non percepiva nulla, ma io… io, se non altro, lo sapevo. E tutte quelle piccole conseguenze erano sempre lì, a ricordarmi di non essere sola.
Non gli avrei risposto così, questo era certo. Ora dovevo solo parlare e… “Alla solita panchina.” proclamai, perentoria, cercando di apparire il più sicura possibile. Peccato che quella stessa espressione, la solita panchina, mi si ritorse subito contro. L’avevo davvero usata? Era davvero così orribilmente… melensa? Non dovevo distrarmi, però. Avevo altro da fare. Da dire, soprattutto. “Tra venti minuti. Non starò lì ad aspettare, se… non ci sarai.” Mi staccai in fretta il telefono dall’orecchio, spingendo con un gesto secco il tasto per riagganciare. Era fatta. La sua voce si era spenta, così come la mia. Peccato, che, adesso, mi sentissi totalmente stralunata. Forse era stata una ripicca, forse una pazzia… non volevo nemmeno pensare al fatto che avessi ceduto. Soprattutto, però, a preoccuparmi, ora, era un’altra cosa. L’avrei visto. Mi sentivo forse pronta? …
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Working on a dream
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Mark Pace
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Ancora stavo parlando quando era arrivata quella sua prima frecciatina. Lo sapevo che l’aveva detto solo per ferirmi, perché lei sapeva che io odiavo essere definito in quel modo… specie perché odiavo la categoria e se lo fossi diventato come tutti si aspettavano mi aspettavo anche di cambiare le cose… o provarci, se non altro. Essere quindi di spregiativamente assimilato alle persone che più detestavo negli ultimi tempi non mi faceva onore. Era l’ennesimo colpo che voleva infliggermi, dopo quelli che già prima aveva lasciato intuire e quelli che io stesso mi attribuivo: in ogni gesto di quelli che si riferivano all’abbandonarla mi figurava quelle persone da cui più mi sarei voluto moralmente discostare. Credo che in effetti la questione sia piuttosto significativa: vedevo in quell’azione qualcosa di tanto immorale da poterla solo accostare o a mio padre o – appunto – agli avvocati. Il problema era che al momento Ellie l’aveva detto per il mio tentativo di riavvicinamento e in quel caso io sapevo che non era così: in quel momento sapevo di star agendo anzi all’opposto di quella tremenda categoria, perché ero pronto a fregarmene per qualsiasi cosa avessero detto gli altri, concentrandomi solo sul noi.
Ero giunto a patti con me stesso: avrei fatto dei sacrifici, ma almeno avrei potuto tentare di avere ancora lei e soprattutto il suo rispetto. Avrei lavorato e studiato nel contempo… Non dovevo però restare indietro o avrei appesantito il fardello dei miei nonni e mia madre… Avrei avuto bisogno di Richie, per una volta avrei davvero chiesto il suo aiuto come amico e non come semplice compagno di fancazzismo. Qualcosa mi diceva che me l’avrebbe dato alla fin fine… Non era un idiota. Non sarei più potuto andare a frequentare le lezioni, per questo mi serviva lui per le registrazioni e gli appunti… Non li prendeva mai, di solito anzi li copiava lui da me, ma proprio per la mia generosità precedente ora sapevo che non avrebbe fatto lo stronzo.
Ad ogni modo c’era sempre tempo per organizzare tutto questo… Avevo anche già trovato vari annunci per aiuti baristi in giro per la metro e sarei stato disposto a fare di tutto per un po’ di soldi in più. Dovevo appunto assumermi le mie responsabilità di padre di qualcosa che sarebbe giunto… Ed ora ero pronto per ciò che sentivo per lei.
Qualcosa dentro mi diceva che ciò che ora percepivo come un peso sarebbe diventato invece col tempo qualcuno di caro, qualcuno che avrei amato e che avrebbe incarnato me e Ellie per sempre.
Mi rendevo sempre più conto di come per una volta la paura non fosse nel legarsi a qualcuno ma anzi nel distaccarsene. Vedete, tutte le volte che mi ero “fidanzato”, o comunque ero stato con qualcuna, per quanto assurdo possa sembrare, ero sempre consapevole che prima o poi sarebbe finita.
In qualche tremendo ragionamento mentale stavo con quella ragazza, ma entrambi eravamo consapevoli dell’effemerità della cosa. Stavamo bene insieme, ma non ci completavamo: eravamo due superfici simili ma non compatibili.
Col trascorrere dei giorni iniziavo quindi a sentire le frizioni che si creavano: raramente avevo lasciato l’altra a malo modo… Con lacrime o urla, anche da parte sua. Era come se tutto fosse sempre un percorso obbligato ma destinato a trovare la sua pacifica conclusione di comune accordo.
Con Ellie aveva pianto lei… Avevo pianto io. E nel momento in cui stavo con lei, mai una volta mi ero figurato la fine di ogni cosa… Nella mia mente a un giorno si succedeva il futuro e …sempre insieme.
Era quello l’ennesimo campanello d’allarme: lei era la mia figura compatibile, lei quel pezzo di me che completava il puzzle e per il quale, essendomi allontanato bruscamente, ora soffrivo.
Era stata una separazione violenta nel senso proprio del termine: violenta perché era come se qualcosa si fosse appunto intromesso con la forza tra noi, provocandomi quella fuga che era contro anche la mia volontà infine.
Il punto era che sapevo di non volerlo ora e che quindi appunto tutte le mie parole ora non erano retorica ma sincero sentimento…
Ignorai tuttavia la sua frecciata alla fine… Avevo cose più iportanti da dirmi che mettermi sulla difensiva, specie perché volevo convincermi che lo dicesse più per rabbia che per vera convinzione.
Quando però arrivai alla conclusione della mia richiesta e soprattutto le posi quella domanda non riuscendo a trattenermi il silenzio tornò a scendere sulla cornetta.
Di nuovo tornai allora a sentire il rumore della solitudine che mi attorniava e del dolore che sentivo nel cuore ceh veniva lentamente strappato, secondo dopo secondo, stando col timore di perderla.
In quel momento poi si aggiungeva una seconda paura; come avrei avuto il coraggio di guardarla in viso se avesse rinunciato al bambino perché sola… e ora… ora fossi tornato troppo tardi?
Qualcosa nel suo non parlare mi inquietava da morire e mi faceva vibrare tutto, seduto lì sul letto in attesa e in panico.
Chiusi gli occhi: sentivo ogni leggero cambio di pressione del materasso... ogni piccolo spiffero d’aria che entrava dalla finestra lì vicino… ogni paura che mi riempiva il cuore.
Poi di nuovo mi parlò e subito riaprii gli occhi attento, con un sobbalzo.
Non mi aveva risposto ma… Aveva accettato. Aveva accettato! Dannazione, aveva …l’avrei rivista! Parlò ancora, mentre il mio cuore e la mia mente già viaggiavano al momento seguente.
La nostra panchina… Quella panchina dove avevamo trascorso tanti pomeriggi tranquilli e che ora speravo mi avrebbe portato fortuna. La scelta del luogo soltanto mi dava forza: non aveva scelto di distaccarsi dal noi per quanto apparentemente volesse darmi quest’idea! Aveva scelto un luogo che era solo nostro, non un luogo neutro.
Aggiunse poi quella clausola perentoria: non esserci? Non sarei stato in ritardo nemmeno se mi avessero investito appena uscito di casa per quell’occasione!
Non feci in tempo a dirlo però che già il rapido ”tu,tu” del telefono scollegato mi rimbombava nell’orecchio. Rimasi fermo qualche secondo, quasi in trance per quella fortuna che la sorte mi concedeva. Non dovevo sprecarla. Potevo rivederla.
E poi mi mossi quasi di scatto alzandomi con un balzo dal letto: avevo venti minuti e non dovevo perder tempo!
Ero ancora in pigiama, ma in pochi secondi corsi fuori dalla porta verso il bagno a prepararmi per poi balzare di nuovo nella mia stanza aprire l’armadio e far cadere oltre metà del contenuto nell’estrarre in fretta la mia maglia porta fortuna. Ebbene sì, un minimo di scaramanzia inglese doveva portarmi buona novella per quella volta.
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Immobile, ancora stringevo tra le dita il telefono, mentre il silenzio riprendeva, lentamente, ad attorniarmi. Quella calma piatta e senza senso che mi circondava cominciò ben presto a farmi male alle orecchie. C’era troppo silenzio. Era del tutto innaturale. Sapevo benissimo di essere sola in casa, quindi la cosa non avrebbe dovuto stupirmi. Eppure, davvero, tutta quella situazione mi mise i brividi. Non riuscivo, o più probabilmente non volevo fare o dire nulla. Ma soprattutto, non volevo pensare. Il peso di quel vuoto aveva ripreso ad opprimermi, alimentandosi con quella stupida e del tutto inappropriata calma. Non c’era nulla di calmo, né fuori, né, in particolar modo, dentro di me. Lo sapevo benissimo, per quanto volessi ignorare la cosa. Mi fischiavano le orecchie, tanto quel nulla era fastidioso. Ma era pur sempre meglio così… meglio che risentire la sua voce.
O almeno, questo era quello che volevo credere. Chiusi e riaprii gli occhi parecchie volte, come per assicurarmi di essere ancora lì, seduta con le gambe incrociate ma tremendamente rigida al centro del letto, stringendo nella mano quel piccolo oggettino ancora tiepido. Lo lasciai scivolare, piano, per premere invece le dita contro il palmo, rendendomi conto dell’insensibilità della cosa. Non mi faceva male. Non erano le unghie che, pian piano, si facevano spazio nella carne a disturbarmi. Era ancora quel silenzio, del tutto perforante, a rendermi sorda a qualsiasi cosa.
Senza nemmeno pensarci, mi lasciai scivolare indietro, tornando a rannicchiarmi nel letto. Non sarebbe durata ancora molto, lo sapevo… non sarei riuscita a tenere tutto fuori, facendomi semplicemente assordare da quella mancanza. Persino la mano, tremante, che stringevo sempre di più, mi ricordò che non potevo tentare di fuggire ancora per molto. La prima cosa a tornarmi alla mente fu, ovviamente, la sua voce. Dapprima era solo un mormorio, qualcosa di indistinto. Tuttavia, già così, era facile intuire di chi si trattasse. Era lui, era lui che mi chiamava. O meglio, come una parte del mio cervello voleva ostinarsi a credere, era Ellie ad essere richiesta da quella voce appena sussurrata, che si faceva però sempre più forte. Eloise non c’entrava nulla in tutto questo. Certo, era lì, anche lei, a condividere quel problema, ma… non era quella voluta. Non da lui, almeno. Ragionai per qualche istante, sulla cosa, finendo per sentirmi salire il magone. Sapevo anche io che era una cazzata. Insomma, non ero nemmeno sicura che volesse ancora Ellie… perché continuare con quella sciocca distinzione? Se davvero, cosa che ritenevo stranissima ed insensata, se davvero aveva intenzione di… riavvicinarsi… non era il caso di continuare a portare avanti quel mio proponimento. Ero semplicemente io. Eloise ed Ellie, Ellie ed Eloise. Continuare ad ostinarmi in quella convinzione mi faceva solamente male e in fondo lo sapevo benissimo.
Raggomitolata, non riuscii a trattenere le lacrime che, fino a quel momento, erano rimaste nascoste in fondo ai miei occhi. Mentalmente finii per ripercorrere tutta la breve conversazione che avevamo appena avuto, complimentandomi, in parte, con me stessa, per la diplomazia della cosa. Se non altro non mi ero mostrata debole… non era già qualcosa? E’ vero, però, che in quello stesso istante stavo dimostrando a me stessa la vanità di tutti quei pensieri. Stavo piangendo e non riuscivo a smettere. Mi sentivo da schifo, sotto tutti i punti di vista, e non c’era niente che potesse farmi migliorare. O meglio, una piccola parte di me sapeva che cosa avrebbe giovato a tutto quel dolore… non avevo forse accettato?
Il mio cuore faceva le capriole al solo pensiero. No, non ero affatto pronta. Vederlo… mi avrebbe rovinata, me lo sentivo. Lo stomaco si contrasse, a sua volta, ricordandomi anche tutto il resto. Già… cosa ne sarebbe stato? L’ennesimo singhiozzo uscì ancora più forte, per quanto cercai subito di soffocarlo contro il cuscino. Mi aveva pur sempre posto quella domanda… davvero gli interessava? Pensava che l’avessi fatta finita, senza di lui? In effetti, non aveva tutti i torti. Mi aveva pur sempre lasciato carta bianca, se vogliamo dirla così. Tutto era rimasto a gravare solamente sulle mie spalle. Non ero io la stessa che, il giorno dopo, avrebbe dovuto prendere una decisione definitiva? Perché, allora, quelle parole mi avevano colpito tanto? Non aveva senso che soffrissi ancora… non dopo quello che era già successo.
Io ci avevo provato. Avevo provato in tutti i modi a far sì che le cose funzionassero. D’accordo, forse non sono un’esperta in queste cose, anzi, ogni volta che il tutto ha rischiato di farsi serio sono fuggita. Ma… stavolta era tutto diverso. Io stessa mi sentivo diversa, credo di averlo pensato e ripetuto allo sfinimento. E la colpa era tutta sua. Era lui che mi aveva portata a questo. Era lui quello per cui… adesso ero lì. E mi sentivo in quel modo.
Affondai il viso nel cuscino, stringendolo forte a me, cercando di non pensare a tutto quello che, su ogni livello, mi stava succedendo dentro. Eppure, quel dolore lancinante continuava a colpirmi, sia a livello emotivo che fisico. Stavo male o… stava male? Insomma, qualunque cosa si nascondesse lì dentro… quell’idea mi gettò ancora di più nello sconforto, ma tentai di impormi. Basta essere debole. Intanto, dovevo piantarla di piangere. Non era colpa mia se lo stavo facendo, no? Insomma, era tutto da ricondurre allo sconvolgimento in atto del mio corpo… cercai di vederla così, in modo razionale, trattenendo i singhiozzi che ancora mi nascevano in gola. E poi, ormai l’avevo fatto. Per qualche strana ed oscura ragione –anche se in realtà sapevo benissimo il perché-, avevo acconsentito alla sua richiesta. Alla sua… preghiera. Bene. L’avrei incontrato. Sì. E prima mi sarei convinta di sentirmi pronta, di non rischiare di… che cosa? Di scoppiare nuovamente in lacrime davanti a lui? No, questo era totalmente da escludere. Mi sarei comportata in modo ineccepibile, per non dire freddo. Dovevo aiutarmi con quelle che sono le mie qualità, se così vogliamo chiamarle. Dovevo tornare al nostro primo incontro, quando avevo cercato di allontanarlo in tutti i modi da me. Questa era l’unica cosa da fare.
Era però quello che volevo davvero? Veramente desideravo allontanarlo, perderlo, stavolta proprio per sempre? La cosa mi confondeva moltissimo, quindi tentai di non pensarci. Per quanto pianificatrice, di mio, ora dovevo pensare ad una cosa per volta. Avevo accettato. Ora dovevo prepararmi. L’avrei trattato come meritava, senza farmi prendere dallo sconforto, dalla malinconia e… e soprattutto da quello che sentivo. Cosa sentivo, però? Ogni volta mi impedivo di guardarmi dentro. Oltre a farmi male… davvero riuscivo a spiegarmelo. Non dal punto di vista razionale. Un guazzabuglio di emozioni, sensazioni e, appunto, sentimenti, si scatenavano in me, ogni volta che anche solo mi figuravo un particolare a lui appartenente. Che fossero gli occhi, la voce, o uno dei suoi sorrisetti a mezz’asta, il cuore saltava un battito, cercando a fatica di riprendersi da quella visione. Ero malata, lo so. Molto malata. Dopo tutto quello che era successo… come poteva essersi acuito ancora di più, quel… quel sentimento? Avrei dovuto odiarlo, non sentirmi così…
Muovendomi piano, soprattutto per quello strano intontimento e l’indolenzimento all’altezza del ventre, tornai a rimettermi a sedere. Quanto tempo era passato? Era forse possibile che… la mia mente stesse volutamente temporeggiando? Mentre mi alzavo, pensai che sì, la cosa non era poi tanto assurda. Non mi sentivo del tutto pronta ad incontrarlo, era lecito che succedesse tutto questo. Eppure c’era dell’altro. Sapevo che quel mio perdere tempo non era dettato dalla paura. O meglio, naturalmente lo era. Ma dipende da come decliniamo la cosa… avevo paura di arrivare e… di non trovarlo. Temporeggiavo, dunque. Temporeggiavo per non perdere l’ultima possibilità che avevo di vederlo.
Esatto, nella mia testa quella era davvero la fine di tutto. D’altronde, cosa potevo aspettarmi? Lo sapevo che i suoi erano solo sensi di colpa. Questi l’avevano spinto ad un gesto tanto folle… se ne sarebbe, andato, di nuovo, sentendosi però la coscienza a posto, stavolta. Dopotutto, aveva pur sempre tentato, no? Oppure… potevo sempre mentirgli. Una parte di me era del tutto convinta della cosa. Gli avrei detto che avevo già sistemato tutto da sola. Non doveva sentirsi vincolato, ora. Gli avrei detto che… non c’era più nulla, a legarci, adesso.
Mentre formulavo quella frase, ancora, mi sentii malissimo. Per chi lo stavo facendo? Per me? Per lui? Per quello che, ancora, era lì, dentro di me? Non lo sapevo. Forse era solo masochismo… o forse, davvero, voglia di far sentire tutti liberi.
Mi trascinai piano verso il bagno, senza rendermi conto della lentezza dei miei movimenti. Ancora, incontrare la mia figura allo specchio fu strano. Ero indubbiamente io, ma quei particolari non facevano che stridere tra loro. L’immagine vagamente più piena, mescolata a quel malessere non esattamente così nascosto. Studiai, solo per qualche istante, e solamente da un punto di vista visivo, il tutto. A livello macroscopico c’era, lo sapevo. Solo che non volevo vederlo. Mi sciacquai in fretta il viso, come per cancellare via tutti quei pensieri maligni, ed altrettanto in fretta, almeno, così pensai, tornai in camera. Non guardai nemmeno che cosa uscì dall’armadio, ma mi vestii, stavolta, con estrema lentezza, tentando di ignorare quel fischio che ancora sentivo nelle orecchie, che si mescolava, di tanto in tanto, con la sua voce supplichevole. No, non era così che volevo ricordarlo. Per quanto mi facesse male, preferivo infinitamente figurarmelo mentre sorrideva, mentre mi diceva anche la più piccola delle cazzate. Quel che contava era la sincerità e la bellezza di quel suo gesto apparentemente sciocco. E il suo sguardo, innegabilmente puntato verso il mio…
Sistemata per bene la sciarpa e la giacca, rimasi per qualche momento ferma nell’ingresso, con le luci già spente. Quel senso di vuoto e di tristezza era ancora lì, sempre al mio fianco, pronto a pesarmi sulle spalle. Sospirai, tentando di essere decisa mentre aprivo la porta e velocemente mi infilavo fuori. Anche in ascensore voltai le spalle alla mia immagine riflessa nello specchio, concentrandomi invece sul movimento che faceva quella macchina scendendo. La mia mente prese a vagare su tutte le volte in cui, lì dentro, mi ero stretta a lui, salendo o tornando a piano terra, tra risate e parole appena sussurrate. Rabbrividii, una volta che le porte si spalancarono. Era il freddo dell’ingresso, naturalmente, non la potenza di quei ricordi…
Anche poco dopo, per la strada, tutto mi apparve lontano e distaccato. Camminavo in mezzo alla gente, cercando di tenere la testa alta e il portamento fiero, come mio solito. Ma tutto quel peso non faceva che ricordare la sua presenza, portandomi ad abbassare il capo, trattenendo a fatica sospiri su sospiri. Perché dovevo fare così? Non ero forse dalla parte giusta, io? E allora perché, lentamente, mi ritrovavo anche a soffrire per quello che gli avevo detto? Era stato tutto intenzionale, naturalmente… ogni mia risposta, per quanto assurdo, era comunque riuscita a fare i conti, in parte, con la mia razionalità. Sapevo dove andare a parare. Volevo ferirlo.
La ghiaia, adesso, scricchiolava già sotto i miei stivali. Quasi sussultai, quando me ne resi conto, accorgendomi di come anche il rumore del traffico urbano si fosse affievolito, per fare nuovamente spazio al silenzio. Ormai ero lì. Tornare indietro sarebbe stato da codardi; è vero, però, che tante volte ero fuggita da lui… pensai amaramente alla cosa, costringendomi a guardare ancora i piccoli sassolini che stavo per calpestare. Non volevo cercarlo con lo sguardo. In fondo, era inutile negarlo: se non l’avessi scorto… tutto sarebbe davvero finito, stavolta. Per sempre.
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Working on a dream
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Mark Pace
«We're just two lost souls swimming in a fish bowl,
year after year, running over the same old ground»
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Era impressionante quanto la mia mente riuscisse a passare dall’assoluto vuoto di pensieri a invece un rimescolio totale e inebriante. Un secondo mi sembrava di fare le cose quasi come un automa, un burattino nelle mani di qualcun altro, quello dopo invece mi sentivo pieno di idee al punto da scoppiare e allo stesso tempo estremamente conscio di me stesso. Mi ero cercato di sbrigare nel prepararmi avendo letteralmente addosso il terrore di non riuscire a fare in tempo a arrivare lì. Non so, percepivo quasi un presagio negativo e mi dicevo che d’altronde mi sarei solo meritato quello scherzo della fortuna, dato come mi ero comportato prima nei suoi confronti. Era indubbio, non credo al fato, ma comunque c’eravamo incontrati quel giorno per caso e da allora la mia vita era letteralmente cambiata. Ogni giorno lei l’aveva riempita con un piccolo gesto, una parola, uno scherzo, una battuta, un sostegno anche solo nello studio… finché poi davvero non mi aveva dato tutta se stessa e le cose erano salite a un livello ancora superiore, ancora più bello e complicato al tempo stesso se vogliamo. Forse l’errore era stato anche in questo da parte mia: nell’approcciarmi a lei con la stessa ingenuità e la stessa aria naive di sempre, senza considerare che questa non poteva e non sarebbe mai stata una storiella, per la sua semplice volontà di essere. Era Ellie stessa con la sua personalità a impedirlo ed io con la mia; due come noi potevano solo unirsi o scontrarsi, non esistevano mezze vie. L’errore quindi era stato proprio nel prendere alla leggera, o meglio, non alla leggera, ma giorno per giorno e quasi senza riflettervi,un qualcosa che valeva immensamente di più, al punto che ora mi rendevo conto di quanto avessi agito in modo sorprendetemente – fin troppo – tranquillo. Tutto questo certo finché non si era passati davvero all’altro livello, al punto di non ritorno se vogliamo, al punto in cui lo stesso caso che mi aveva permesso di incontrarla mi veniva a dire che dovevo smetterla di cazzeggiare e pensare che fosse una storia come un’altra: dovevo scegliere e in un certo senso per una data a lungo termine. Non esito a dire questo, perché è dannatamente vero. Se ora stavo correndo per incontrarla non era perché fosse sorta in me chissà quale aspirazione paterna, dato che da quel punto di vista mi sentivo ancora completamente impreparato, ma semplicemente perché avevo il sentore che se vi avessi rinunciato avrei perso ogni voglia di vivere… Per merito suo. Era lei quella persona che mi completava e ormai ne dipendevo, nel bene o nel male.
Quell’essere che adesso era ancora qualcosa di indefinito… o forse no… per quanto ne sapevo in effetti poteva avere anche già una mente pensante… comunque, quell’individuo, perché questo sarebbe diventato, rappresentava alla perfezione quello che avevamo compiuto e di fatto cancellarlo ormai avrebbe per me significato cancellarci. Non potevo sopportarlo. Non potevo assolutamente.
Dovevo esser quindi puntuale, anzi in anticipo, per una volta in vita mia, lottare perché quel cazzo di caso non si prendesse la sua vendetta per quella mia prima rinuncia. Non ragionavo allora, ma ora ero convinto, cuore e anima, che non poteva stare senza di lei e le avrei detto tutto questo, tutto senza filtri né imbarazzi, perché meritava di sentirsi dire queste e altre parole! Non le avevo mai nemmeno detto ”ti amo”. E lo sapevo benissimo, perché era sempre stato contro la mia morale. In tutte le storie precedenti non esitavo a pensarlo: non aveva senso dire quelle parole a una persona per cui sicuramente provavo affetto e attrazione ma... amore? Quello non dovrebbe esser qualcosa di estremamente puro, perfetto ed elevato? Qualcosa che appunto si trova una volta nella vita per chissà quale coincidenza e poi resta quello per sempre? Sono sempre stato convinto che siamo tutti destinati a una sola persona. Esiste, sia chiaro, il problema è trovarla… E non tutti naturalmente ci riescono. Qualcuno magari ogni tanto si convince di aver trovato la propria e per questo gioisce e vive così tutta la vita soddisfatto da quella considerazione. Magari però se avesse davvero vissuto con la sua anima gemella… allora davvero non sarebbe stato soddisfatto, ma felice.
E dall’altra parte la cosa poteva diventare quasi tragica se si considera che per ogni relazione potremmo dire accomodata, vi sono altre due persone che restano sprovviste dal caso della loro anima, a volte in modo molto più doloroso.
Ecco, il punto è che al momento io mi sentivo così, ferito e perso, come mai prima. Non era solitudine quella che percepivo, era una completa perdita di rotta. Dovevo averla solo per me, con me e sempre. La amavo.
Finii di vestirmi mentre quelle parole continuavano a rimbombarmi perennemente in testa come un eco che però non mi stancava: volevo solo dirle a lei, ammettere infine tutto quanto! Sapevo che però non avrei potuto semplicemente andare incontro e urlargliele. Avrei dovuto riconquistarmi il diritto di poter fare certe affermazioni, avrei dovuto farle comprendere che ero un idiota e lo sapevo, ma ero lì per rimediare.
Allacciate anche le stringhe delle converse alla meglio afferrai la giacca e poi uscii di corsa. Sentii solo mia zia fare un acido commentino sul fatto che finalmente emergessi dal bunker, ma l’ignorai perché non avevo tempo per quel genere di cose. Il punto in cui mi aveva dato appuntamento era il parco a metà strada tra i nostri quartieri. Guardai l’ora: avevo poco più di una decina di minuti… ok, volevo correre, è inutile negarlo, quindi lo feci, e mi misi a correre come un pazzo lungo la strada, col cuore che già mi rombava forte dentro per l’ansia e il magone di prima e allo stesso tempo l’adrenalina data dai sentimenti più positivi che provavo.
Quando finalmente arrivai all’ingresso rallentai piano prendendo fiato…Subito cominciai a indirizzarmi verso la nostra panchina… Avevamo anche una panchina appunto, e almeno quello l’aveva ancora ammesso anche lei.
Camminavo sempre rapido e guardai il display del cellulare … Ero in anticipo di qualche minuto sul suo appuntamento… lei non c’era ancora.
Sospirai rimanendo in piedi lì davanti alla panchina, le mani in tasca e le gambe che scalciavano nervose i sassolini della ghiaia. Ogni tanto alzavo lo sguardo freneticamente nella direzione da cui sapevo sarebbe arrivata… mi domandavo come avrei potuto reagire davanti a lei. Mi veniva ancora solo il magone a pensare che l’avrei rivista e che mi avrebbe tenuto lontano. Sapevo di meritarlo, ma il solo immaginarlo mi dava alla testa. Strinsi gli occhi, già lucidi e scossi la testa con la volontà di riprendermi: dovevo stare in campana, attento a non fare passi falsi.
Tornai al cellulare… Erano sette minuti che l’aspettavo lì fermo, ma mi sembrava molto di più… E lei ancora non arrivava. E’ vero, io avevo corso, ma … se non fosse semplicemente venuta? Ne sarebbe stata capace? Avrebbe potuto darmi quella speranza per poi beffarmi così, forse come lei si era sentita trattata da me? Calciai più forte la ghiaia al sol pensiero: no, non poteva andar così comunque! Doveva darmi la possibilità, me l’avrebbe data, perché qualcosa in fondo mi diceva che lei voleva ascoltarmi quanto io parlarle e voleva che tutto tornasse a posto, come prima, esattamente come me.
Mi passai una mano sulla fronte alzandola e allora…allora la scorsi. Si avvicinava lentamente guardando a terra, ma il mio cuore mi balzò comunque forte in petto e gli occhi si fecero lucidi, come sempre quando quel nodo mi avviluppava la gola, quel nodo che nasceva dai sentimenti più contrastanti che potessero esistere: avevo paura, certo, ma anche nostalgia e voglia di stringerla solamente a me, proteggendola da tutto, anche dal me di prima.
Compresi benissimo che guardava in basso di proposito, quindi decisi che avrei rispettato i suoi tempi, attendendo che mi raggiungesse. Solo allora quindi, quando fummo vicini,controllai la voce, deglutii e poi: ”Ciao…Ellie…” dissi lentamente, ma – spero – con un che di premuroso.
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view post Posted on 19/5/2012, 14:58
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Questione di ore e di secondi, contemporaneamente. Un tempo infinito e un battito di ciglia. Il tutto, ovviamente, per percorrere quei pochi, pochissimi metri che ci separavano. Per l’ennesima volta, in quei giorni, mi resi conto di quanto il tempo, appunto, fosse totalmente relativo. Tutto scorreva così in fretta da sparire, in un attimo; ma, al contempo, le cose si divertivano a rallentare il loro corso, provocando solamente quel dannato ed orribile senso d’ansia. Non era possibile che mi sentissi sempre così dannatamente in bilico tra pulsioni e pensieri opposti. Eppure, ormai, quella sembrava davvero essere diventata una costante. Avrei dovuto odiare prima di tutto me stessa, quella me tanto sciocca che permetteva che tutto questo accadesse. Invece, ancora più stupidamente, forse, mi ostinavo a gettare le mie colpe sugli altri. E, ovviamente, chi poteva mai essere il primo capro espiatorio?
Era forse così sbagliato, però? Pensateci. Davvero, in parte non potevo negare, almeno a me stessa, di essere responsabile… ma lui, lui non lo era più di chiunque altro, sottilmente parlando, anche? Era stato lui ad iniziare in me in quel cambiamento. E non parlo degli ultimi risvolti della questione. Fin dall’inizio, non si sa come o perché, aveva cominciato a modificare qualcosa, nel mio essere. Ecco, anche questa definizione non faceva che mostrarmi come stessi solo tentando di stornare tutto da me stessa. Volevo guardarmi da un’altra prospettiva, anche con quella storia della scissione… amando l’introspezione, pensavo proprio che questo potesse aiutarmi. Staccarmi in due parti separate, ognuna a sé, con i suoi problemi e tutto il resto. Osservare dal punto di vista di ognuna di queste me, guardando al bene e al male della cosa. Stupido e corretto allo stesso tempo. Sono sempre stata una persona analitica, con il pallino di cercare di esaminare le cose a fondo. Il problema, però, è che l’unica su cui avrei dovuto lavorare, prima di tutto, ero proprio io. Invece, ritenendomi da tempo immemore non dico perfetta, ma priva di cose da correggere o modificare, mi ero sempre limitata a fare questa operazione sugli altri.
O almeno, fino a quel momento. Mentre continuavo a procedere, in quel lasso di tempo tanto piccolo quanto infinito, finii per rendermi conto che, in tutto questo, ero forse stata persino egoista. Anche lui, non si sa come, era riuscito a salvarsi dalle mie analisi così spietate e taglienti. Per quanto mi infastidisse, avevo quasi automaticamente imparando a prenderlo così, come la sua natura gli diceva di fare. Certo, dapprima c’era stata quella storia del sentirsi tremendamente infastidita da ogni suo gesto, e, soprattutto, da quella sua dannata calma. Perché l’avevo fatto? Perché, invece di ribellarmi, come facevo sempre, avevo lasciato correre? Potevo convincermi quanto volevo di averlo fatto per la semplice constatazione di aver trovato un buon avversario, ma… doveva esserci dell’altro. Non è così facile convincermi, ecco. Tuttavia, è vero, le altre opzioni era così assurde e contro il mio modo di ragionare che erano state escluse a priori. Insomma, non ho mai creduto in cazzate come il colpo di fulmine o le simpatie spontanee… anche perché, davvero, con lui non era stato affatto così! All’inizio l’avrei davvero strozzato, dico sul serio. Lui e quel suo fare supponente e sarcastico, che, purtroppo, mi ricordava tremendamente il mio stesso atteggiamento, lui e quella sua calma totalmente fuori di testa, incomprensibile, ai miei occhi… quindi, sì, non c’era stato nulla di minimamente paragonabile al tanto famoso colpo di testa improvviso. Semplicemente, d’accordo, pur cercando di allontanarlo da me avevo solo ottenuto il risultato opposto… con mia grande gioia.
Avrei fallito anche questa volta, quindi? Mi chiedevo pure questo, avvicinandomi. Avanti, che altro avrei potuto fare? E’ chiaro che dovevo stornarlo da me, fare in modo che fuggisse, e, stavolta, non tornasse più. Il perché non mi sembra tanto difficile da capire. Non solo mi aveva ferita, ma… io stessa, molto stupidamente, non volevo ferire lui. O meglio, in questo, in realtà, avrei tentato. Anche solo poco prima, al telefono, l’avevo attaccato tanto acidamente per puro scopo difensivo, sì… ma in parte volevo anche punirlo per come lui aveva trattato me. Resta però sempre il fatto che la ragione per cui, soprattutto, desideravo allontanarlo, era lui stesso. Lui e il suo futuro, tutto quello che, ancora, lo aspettava. E’ vero, tecnicamente ero ancora aperta ad ogni possibilità, ma, in ogni caso, volevo preservarlo da tutto questo. Per quanto fossi incazzata, per quanto mi volessi convincere di odiarlo… non era affatto così. Anzi. Qualcosa di non ben definibile, che se ne stava nascondo nelle profondità della mia mente, mi diceva che la cosa migliore che potessi fare, non tanto per me, quanto per lui, era lasciarlo andare. Solo così avrebbe avuto la possibilità di salvarsi, almeno lui.
Lo so, lo so, continuavo a pensare in modo totalmente insensato e sciocco. Me ne rendevo conto, questo sì, eppure i miei pensieri continuavano a susseguirsi senza soluzione di continuità, passo dopo passo. Se non altro, tenevo gli occhi incollati alla ghiaia del sentiero, fissandomi a tratti la punta degli stivali. Tutto, ovviamente, pur di non guardarlo. Già il mio cuore aveva sobbalzato, al pari del mio stomaco, nel vederlo in lontananza, lì, in piedi, a calciare quegli stessi sassetti che ora stavo pestando. Adesso che ci pensavo… era lì, c’era davvero. Un po’ ironicamente finii per sorridere vagamente, almeno dentro alla mia testa, ragionando sulla cosa. Non era arrivato in ritardo. Era arrivato lì, prima di me. Certo, in tutto questo, c’era da dire che quella in ritardo ero io. In bilico tra il consapevole e l’inconscio, avevo appunto rallentato i miei movimenti, ripetendomi che lo facevo per il semplice scazzo di non volerlo vedere. Nessun commento, invece, sul fatto che, così, sperassi di evitare una sua assenza, e, dunque, il mio totale e definitivo allontanamento.
Questo sarebbe successo comunque, ovviamente, ma, con discreto masochismo, avevo pur sempre deciso di vederlo, ancora. Per l’ultima volta, però. Volevo essere categorica ed inflessibile su quella scelta. Avrei incontrato i suoi occhi, ancora, e da lì la cosa sarebbe finita. O almeno, sempre che quello che c’era lì, dentro di me, non gli somigliasse così tanto… ma perché preoccuparsi? Probabilmente sarebbe stato più giusto per tutti che sparisse, così come quello che c’era tra noi sarebbe sparito, seguendolo in fretta.
Ma ne ero davvero convinta? Non solo di quella prima decisione, voglio dire… essa era ancora lì che mi balenava nella mente, però, come un’idiota, non volevo risolvermi. Non ancora, almeno. Ma c’era, appunto, un’altra questione. Davvero tutto sarebbe svanito così? Davvero ci saremmo lasciati come se nulla fosse successo, buttando via ciò che avevamo avuto? Fu più forte di me. Per quanto odiassi fare ragionamenti del genere, tanto assurdi e smielati da apparire stucchevoli, quell’idea mi assillava. Dimenticarsi dell’altro, da quel giorno in poi, sarebbe stato come cancellare quello che, invece, sentivo. Mi mancò il fiato, a quella constatazione, ma ormai era fatta. Non potevo nascondermi dall’averlo ammesso. Certo, non sarei andata più avanti di così, questo era chiaro, ma… non potevo negare di provare qualcosa, per lui. L’avrei lasciato lì, tutto indefinito e sofferente, senza stare ad analizzarlo. Anch’esso avrebbe subito la sorte che per tanti anni aveva avuto il mio stesso essere; per ragioni opposte, stavolta, però. In ogni caso, questo significava solo una cosa: io non volevo cancellarlo.
Erano passati sì e no pochi istanti; così sembrava anche per quella parte di me che aveva paura di quel momento, paura di quando avrebbe davvero incontrato la sua figura. Il resto, però, percepiva quel tempo e quella breve camminata come qualcosa di eterno, che però, finalmente, era arrivato ad un termine. Come potevo essere terrorizzata ed impaziente allo stesso tempo? Che senso aveva la cosa? Tutta quella contraddizione… no, non ero io. Non volevo essere io!
Per quanto cercassi di sfuggirvi, però, ormai era fatta. Il mio sguardo, continuando a scorrere verso il basso, vide entrare, delicatamente, nel suo campo visivo, anche l’inizio della sua figura. Sussultai, di nuovo, stringendomi appena nel cappotto. Tenere il capo chino in quel modo non era da me, dannazione… dovevo affrontare anche questa situazione con polso ed orgoglio, lasciando che quelle due, sgradevoli sensazioni rimassero fuori.
Ancora stavo ragionando sulla cosa, però, quando lo sentii parlare. Nulla di più semplice, naturalmente… un saluto, nulla di più, nulla di me. Ma allora perché, per l’ennesima volta, mi sentii totalmente rivoltare, come se mi fosse appena successo chissà cosa? L’orgoglio mi disse di alzare quei dannatissimi occhi e fregarmene di paura ed ansia, perché lì, la vincente, quella dalla parte del giusto, ero io ed io sola. Ellie, invece, tentava di pigolare di avere bisogno di guardarlo… in un modo o nell’altro, assecondai quelle spinte, e, finalmente, sollevai la testa, puntando il mio sguardo direttamente verso il suo, con le labbra serrate in un’espressione seria e, speravo, totalmente insensibile.
Peccato, però, che quello che scorsi mi fece subito cambiare idea. Non eravamo ancora vicinissimi, né avremmo dovuto esserlo, ma i suoi occhi erano innegabilmente brillanti. Lucidi. Come se… d’accordo, non come. Stava male, o, perlomeno, era teso. Ed era colpa mia, dunque? Annaspai, rendendomi conto della cosa, per l’ennesima volta in bilico. Tra la preoccupazione e la tristezza, stavolta, ed un vago e crudele senso di soddisfazione. Io che non piangevo tanto, in quei giorni, o anche solo poco prima, non avevo fatto che spargere lacrime. E, qualunque fosse il motivo, lui c’entrava sempre.
“Mark…” mi decisi infine a mormorare, in risposta, sperando che non notasse quanto la voce mi tremava. “Non credevo davvero che…” cominciai, un attimo dopo, con fare sprezzante, cercando subito di colmare quella mancanza che avevo avuto nel saluto. Peccato, però, che mi persi, tra l’impaurito, il rattristato, e, d’accordo, l’emozionato. Il mio sguardo, infatti, non riusciva a non correre per il suo viso, notando quando ognuno di quei particolari gli fosse mancato. Strinsi le mani nelle tasche, tremanti anch’esse, gettando un’occhiata alle sue, invece. Chissà come o perché, qualcosa mi diceva che se solo le avessi strette buona parte di quel fremere sarebbe passato, o, comunque, avrebbe cambiato natura… “… Devi essere impazzito davvero, ecco.”
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Ero in ansia tremenda, come poche volte in vita mia. Ricordi sfuocati di altri eventi della mia vita, esami importanti, la decisione di lasciare l’Inghilterra… tutto sembrava passare in secondo piano di fronte a lei, ora. I muscoli dello stomaco erano tutti tremendamente contratti, in un’ansia che derivava da quel sentimento di attesa che temeva di esser deluso, di agire a vuoto.
Il punto era che sapevo che se non fossi riuscito a convincerla, se non l’avessi riportata tra le mie braccia, mi sarei comunque sentito responsabile e in colpa comunque. Non sarei riuscito a dirmi ”Almeno ci ho provato”, perché il punto era che non ci avevo davvero provato. Per sentirmi realmente in pace con me stesso non avrei dovuto semplicemente rinunciare a lei quella stessa giornata. Ora, qualsiasi cosa, sarebbe dipesa comunque da quella mia prima sciocca e timorosa rinuncia. Più ci ripensavo e più mi sentivo al contempo colpevole e preoccupato. Ero responsabile di un crimine in un certo senso…ed in un certo senso ero vittima di quello stesso crimine. La cosa mi mandava in corto circuito non facendo che acuire ad ogni istante quel senso di dolore che mi prendeva all’altezza degli addominali e che somatizzava tutta la tensione e l’ansia che provavo…La sola idea di perderla per sempre mi faceva sentire immediatamente senza forze e tale dato diventava ogni secondo più evidente ora che l’avevo proprio lì davanti a me, a concretizzare un sentimento di mancanza che mi aveva pervaso in tutti quei giorni, in quei giorni in cui non avevo fatto altro che lasciar peggiorare in un lungo declivio la mia condizione, la nostra condizione… tutto ciò che in un certo senso ci teneva legati l’uno all’altra. In effetti c’era poi sempre quel pensiero a restare accantonato in un angolo della mente: continuavo a focalizzarmi su di lei, ma era chiaro che con lei accettavo anche quell’altro elemento, quello che forse… No, non volevo nemmeno pensarci, non poteva averlo fatto e non poteva aver la crudeltà di tenermelo così nascosto. Ecco, vedete, dall’alto della mia alterigia finivo per accusare lei di crudeltà… Per cosa? Per avere semplicemente preso una decisione che migliaia di altre ragazze avrebbero preso? Per essersi sentita incapace di sopportare un peso da cui io stesso ero fuggito lasciandola, abbandonandola, sola? No, appunto, ero io l’unico da biasimare in tutta questa storia, glielo dovevo dire, gridare a gran voce, farle capire quindi con tutto me stesso quanto mi sentissi volenteroso di riparare alla situazione, non per sentirmi la coscienza a posto, ma perché avevo bisogno di lei. Sì, a costo anche di sembrare tremendamente egoista era per questo che le avevo chiesto di parlare: dovevo averla per me, non potevo più andare avanti con l’idea che non l’avrei più potuta vedere, non le avrei più potuto parlare… non avrei più avuto quella fantastica persona tutta per me. Mi ero lentamente abituato in tutti quei mesi alla consapevolezza di svolgere un ruolo centrale nella sua vita, tale e quale a quello che lei svolgeva nella mia. Certo, all’inizio era l’amica…poi molto di più; ma qualsiasi aspetto della nostra relazione si considerasse rimaneva chiara la semplice evidenza che lei costituiva ormai da settembre un fulcro, un perno a cui mi ero attaccato con tutte le forze.
Era la sua personalità, il suo stesso essere a renderla tanto speciale e complementare a me e se a questo si aggiungeva tutto l’effetto che la sua sola presenza ora mi provocava capivo di non sbagliare nella volontà di tentare il tutto per tutto per tenerla vicina.
Per tutte queste ragioni, ogni volta che mi concentravo sull’eventualità di fallire mi sentivo quasi mancare, ma poi la vedevo lì davanti a me, per quanto con il viso a terra a evitare un reale contatto, e mi dicevo che se non altro era venuta e se aveva accettato un motivo doveva esserci. Dopo tutto, non era forse stata lei quella a capire sempre tutto prima di me, prima che io ne fossi anche solo consapevole?Allora qualcosa mi faceva dire che se io in quei giorni avevo realizzato di amarla davvero… anche lei non poteva avermi rimosso di colpo dal suo cuore, specie perché per prima vi aveva posta l’anima.
Finalmente trovai la forza di salutarla… Non aveva ancora alzato lo sguardo su di me, ma a quelle parole lo fece. Il cuore mi balzò d’un tratto in gola incontrandolo, come se davvero, solo in quel momento, l’avessi davvero vista. Aveva accettato solo in quell’istante, in modo consapevole, di dialogare. Lo sapevo e la cosa per quanto misera mi accendeva dentro un barlume di speranza.
La osservai per qualche istante incapace di dire niente, finché non fu lei a rompere il silenzio, a parlare e … beh, si sorprese semplicemente della mia puntualità probabilmente, dandomi del pazzo. Un sorriso appena accennato si dipinse tuttavia dolce sulle mie labba… ma come non poteva rendersi conto dell’importanza che aveva lei per me e di come avrei fatto qualsiasi cosa per lei? Non dico che avrei cambiato me stesso, ma se me l’avesse chiesto avrei sicuramente cercato di levigarmi, di migliorarmi. Con lei mi sentivo e volevo sentirmi migliore e questa era una delle cose più belle che un’altra persona mi avesse donato.
Controllavo a stento i miei occhi, ma dovevo impormelo, riservando però gli sforzi maggiori al timbro della mia voce. Non volevo esser patetico, non volevo suscitare la sua pietà, volevo davvero riconquistarla fornendole una dimostrazione reale e concreta dei miei sentimenti.
Strinsi appena le mani lungo i fianchi osservando i suoi tratti: anche i suoi occhi erano lucidi e la cosa mi toccò…L’ultima volta che l’avevo vista piangeva…e ora stava in bilico per.
Era tutta colpa mia naturalmente, dovevo fustigarmi per permettere che un tal viso sopportasse quel peso.
Tra un pensiero e l’altro poi, gli occhi mi caddero sulle labbra carnose e appena dischiuse, per poi inumidire le mie, come a riprendere la concentrazione… mi mancava… mi mancava in tutto il suo essere.
”Non potevo rischiare…” cominciai a dirle per poi interrompermi nuovamente. Dovevo procedere gradualmente, dovevo farle capire che non era tutto frutto di una decisione da post-birrino, ma che era qualcosa di scelto e riflettuto, che dimostrava e spiegava anche quel silenzio come una pausa per una scelta più conscia. E’ vero, non avrei dovuto aver esitazioni, ma ora almeno lo sapevo e sceglievo con totale consapevolezza, mentre altrimenti avrei potuto cambiare idea e pentirmene a posteriori, no?
”…Grazie per esser venuta… Dovevo parlarti… Io … dovevo cercare di giustificare, per quanto malamente e per quanto poco si possa, la mia condotta…” le dissi cercando ancora il contatto diretto con quegli occhi scuri e lucidi, brillanti nonostante in cielo non vi fosse alcuna traccia di sole.
Stavo lì, davanti a lei, in piedi, il respiro accelerato e un battito che non esitava a calmarsi… ma d’altronde ne andava davvero del mio futuro. Per sempre.
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Il mio dovere l’avevo fatto, no? Ero arrivata fin lì, come se nulla fosse –almeno esternamente- assecondando quella sua folle richiesta. In che altro modo avrei dovuto vederla? Era totalmente fuori di testa, dopo tutto quello che era successo. Perché doveva avere lui le redini della cosa, però? Non avevo ancora ragionato su questo… quando tutto era successo mi ero voluta convincere di essere d’accordo su quella decisione, urlandogli a mia volta addosso con tutta la rabbia che mi scorreva dentro. Ma poi, a posteriori, com’è che mi ero sentita? … Molto, molto peggio. Non avevo fatto che ripetermi, a quel punto, quanto invece fosse colpa sua. Era lui che aveva scelto di abbandonarmi, non l’opposto. Anzi, donandogli quella consapevolezza, se vogliamo, l’avevo reso partecipe… avrei davvero potuto risolvere tutto da sola, senza che lui ne sapesse mai nulla. Probabilmente, sarebbe stato molto meglio così. Niente sofferenze, niente problemi, niente separazione... un’occasione come questa, dunque, non si sarebbe mai presentata, né mi sarei trovata a sprecare tutte quelle lacrime, nei giorni precedenti, solamente a causa sua. Tutto sarebbe sempre rimasto sul piano della normalità, senza scossoni o casini.
… Ne ero davvero convinta però? Se non ancora riuscita a prendere una decisione… una spiegazione doveva esserci. Avevo fallito, fin dall’inizio. Non c’era via di scampo. Se anche avessi scelto, allora, non rivelandogli assolutamente nulla… sarei poi riuscita a guardarlo come l’avevo sempre guardato, specie in quegli ultimi mesi, o come, anche solo, lo guardavo ora? Il dubbio mi attanagliava, e, anzi, non faceva che suggerirmi una certa risposta. Ovviamente no. E’ vero, avrei evitato molti problemi, ma, inevitabilmente, la fine sarebbe stata sempre la stessa. Non sarei più riuscita, probabilmente, a pormi in un certo modo nei suoi confronti, sapendo quello che avevo fatto. Probabilmente ci sarebbe voluto del tempo, ma, alla fine, ci saremmo persi, anche stavolta, almeno da parte mia, per sempre.
Insomma, non avevo molte possibilità davanti a me. Qualunque scelta avrebbe comunque portato a questo punto. La nostra separazione. Non avrei dovuto sentirmi così. O meglio, un pochino, d’accordo, era lecito, ma… tutti sanno che certe cose finiscono, prima o poi, no? Dovevo esserne consapevole, in un modo o nell’altro. Eravamo stati indubbiamente bene insieme, però… anche quest’esperienza era giunta ormai al capolinea. E allora perché quel senso di totale smarrimento? Sono sempre stata realista, in questo. Per quanto una persona potesse piacermi o farmi sentire bene, la consapevolezza di dovermi allontanare, da lei, prima o poi, l’ho sempre percepita, chiara e forte. Ora, non dico che fossi convinta di una qualche promessa di eternità, ma… semplicemente, non mi ero mai preoccupata di questo. In sua presenza non potevo fare a meno di sentirmi in un certo modo e, non si sa come o perché, la cosa mi faceva dimenticare tutto il resto. Fin dall’inizio, ancora prima che la nostra relazione si evolvesse in un certo modo, mi ero inconsapevolmente ritrovata a considerarlo una presenza stabile, per quanto nuova, nelle mie giornate. C’era sempre il momento in cui punzecchiarsi o anche solo cazzeggiare insieme. Ma lui era lì. Per me.
Ecco, forse era questo il concetto che più mi faceva male. Avevo mai pensato di qualcuno qualcosa del genere? Che fosse lì, sempre, per prendersi cura della sottoscritta? Era tremendamente imbarazzante come cosa, ma, cercando di ragionarci con un minimo di razionalità, la risposta era chiarissima. No, ovviamente. Certo, escludendo la mia famiglia, non mi ero mai preoccupata tanto di avere un certo tipo di rapporto con qualcuno. Ho sempre odiato dipendere dagli altri. Anzi, per questo, difendere la mia libertà non solo di pensiero, ma anche di azione, è fondamentale, per me, da tempo immemore. Ritrovarmi quindi a farneticare su come Mark fosse sempre stato al mio fianco, per me, appunto, mi faceva girare la testa. Che concezione sciocca ed egoistica! Da quando ero diventata tanto… sentimentale?! Non aveva senso. Specie adesso, dato che eravamo ad un passo dal punto di non ritorno.
Mi sentivo sempre più patetica, momento dopo momento, nonché combattuta tra pulsioni opposte. Volevo fuggire da lì, da lui, ora che, tecnicamente, il mio dovere l’avevo fatto. Doveva solo essermi grato: era riuscito a piegarmi, in un modo o nell’altro. Sperai che non ne fosse consapevole, ma la cosa era abbastanza improbabile. Non era solo una questione relativa a quest’ultima occasione. Era sempre stato così, purtroppo o per fortuna. Più o meno inconsapevolmente, mi ero ritrovata, fin dall’inizio, ad accettare, o comunque, a negoziare con lui. E per cosa? Per quale motivo io, che solitamente rischiavo anche grossissimo, pur di fare di testa mia, avevo invece permesso che lui mi plagiasse? La soluzione era tanto semplice quanto complicata, quindi non volevo esplicitarla davvero dentro la mia testa. Avevo già rischiato di farlo, poco prima, così come nei giorni e nei mesi precedenti. Per fortuna, se non altro, c’erano sempre la rabbia, la tristezza o la frustrazione pronte a controbilanciare la cosa. Anche adesso, adesso che era ad un soffio da me, erano questi sentimenti così conflittuali a farmi sentire in bilico. Volevo fuggire, appunto. Ma volevo anche picchiarlo, sul serio. Per non parlare di quella parte di me che, istigata dalle lacrime, non desiderava altro che buttargli le braccia al collo e mostrare finalmente a qualcuno quanto mi sentissi schifosamente fragile.
Ellie, però, non riusciva ad avere la meglio. Poteva anche starsene lì a piagnucolare ore ed ore, che tanto non sarebbe successo nulla. D’accordo, è vero, l’avevo accontentato. Ma il tutto si sarebbe fermato lì. Non mi sarei fatta ritrascinare sotto da tutto quello che sentivo, come invece non aveva fatto che succedermi nei giorni precedenti. Allora ero sola, senza un pubblico in grado di giudicarmi. Allora, soprattutto, non c’era lui. Adesso, invece, era lì, ad un passo da me, e mi fissava. Non avevo alzato gli occhi, fino all’ultimo secondo, troppo impaurita e stizzita. Incontrare i suoi mi avrebbe solo fatto male, lo sapevo benissimo. Un male diffuso, pungente, striato però di un piacere malinconico. Insomma, è anche vero che il suo sguardo bramava il suo. Voleva poterlo fissare, se non altro, per poter ben imprimere nella testa quella vista, quel colore, che ancora ed ancora non facevano che tormentarmi…
Così, avevo incontrato i suoi occhi lucidi e tesi, nella stessa situazione in cui dovevano essere anche i miei. Peccato, però, che vedere quella reazione su di lui fosse qualcosa di totalmente inaspettato, per me. Non dico mi aspettassi di trovarlo insensibile, però… qualcosa mi diceva che si sarebbe ricacciato dietro quella dannata maschera di atarassia che tanto si era divertito a sfoggiare nei primi momenti della nostra conoscenza. Insomma, me l’ero già prefigurata totalmente calmo, e, per quanto non avessi mai sopportato quel suo modo di reagire, non capendo come potesse essere tanto tranquillo, adesso quasi ci speravo. Ero convinta che, vedendolo così, mi sarei calmata a mia volta. Ritrovarlo all’opposto in quello stato suscitò, ancora, reazioni opposte, in me. Da una parte la rabbia riprese a salire, facendogli praticamente una colpa di quel viso abbacchiato e triste. Ma dall’altra… un vago senso di dolorante compiacimento mi aveva pervasa. Stava soffrendo. Così come stavo soffrendo io. E la colpa, stavolta, era mia. Era me per che stava così.
Ovviamente, però, ero riuscita a sfoderare il mio solito tono acido, per quanto, in realtà, mi sentissi tesa e quasi senza fiato, rispondendo seccamente al suo saluto. O almeno, diciamo che ci avevo provato. Quel mio stesso tentennare mi aveva subito dato sui nervi. Così come il non riuscire a non fissarlo, il non trattenere i miei occhi dal correre sulla sua figura, constatando quando mi fosse mancato. Respiravo davvero a fatica, quasi come se avessi appena finito di correre; cercavo di riprendere aria, con le labbra appena dischiuse, mentre le mani mi tremavano, strettissime su loro stesse, nelle tasche del cappotto.
Ci fissammo, per qualche istante, dopo che il silenzio tornò a calare. Non odio il silenzio, ma, in questo caso, mi faceva davvero paura. Era solo colpa mia o, da entrambe le parti, stavamo alzando un muro verso l’altro? Io, sicuramente, lo stavo facendo. Non che tutto il mio essere fosse d’accordo, ma non conoscevo modo migliore per proteggermi. Dovevo continuare così. Essere sprezzante, acida, odiosa in poche parole. La cosa ovviamente mi riusciva piuttosto bene, ma, adesso, mi sentivo fiacca. Insomma, era come se non avere la forza di lottare… o forse, più semplicemente, non volevo averla.
Continuavo dunque a seguirlo con lo sguardo, quando, vedendolo compiere quel gesto che tante volte avevo osservato, un brivido mi percorse la schiena. Cosa avrebbero detto, adesso, quelle labbra? Quale sarebbe stata la sua motivazione per… tutto questo? Cercai di assumere un che di rigido e composto, con la testa ben eretta, a differenza di poco prima, mentre lasciavo che quelle sue prime parole mi arrivassero alle orecchie. Una parte di me si sentì quasi raddolcita, ma ovviamente fu subito repressa. Non era il momento dei sentimentalismi, quello. Così come non lo sarebbe stato mai più.
“E perché?” finii ben presto per sibilare, appena recepito quell’inizio di discorso. “Perché senti il bisogno di giustificarti?” lo incalzai freddamente, cercando di fissare i suoi occhi con fare altrettanto gelido, per quanto la sola vista di quello sguardo tanto triste e malinconico mi facesse solo venire voglia di stringerlo. “Lo vedi? Ti senti in colpa, tutto qui. Senti la necessità di trovare una soluzione a quello che, ormai, difficilmente potrà essere cancellato.” Per quanto non mi sentissi affatto combattiva, quelle parole non faticarono ad uscire dalla mia bocca. Dopotutto, c’era anche quella componente di rabbia, no? Ascoltarlo rimarcare quale fosse il suo problema, non poteva che scatenare il tutto. “Non hai alcun debito, nei miei confronti, quindi mettiti pure il cuore in pace. L’unica cosa che, sì, forse mi devi, e quest’incontro. Totalmente inutile, ovviamente.” Ancora ed ancora. Volevo ferirlo, lo ammetto. Esattamente come lui aveva fatto con me.
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Osservandola cercavo di non concentrarmi su tutti quei piccoli aspetti negativi che componevano la sua immagine e non sto assolutamente parlando di un piano fisico, perché bella lei per me lo sarebbe stata sempre… No, quello a cui mi riferivo erano quell’insieme di atteggiamenti e espressioni che mi facevano presagire un esito negativo, quello che insomma temevo con tutto me stesso.
Cercavo di non pensarci, di non soffermarmi a riflettere sulla questione, ma era un dannatissimo dato di fatto e non potevo cercare di evitarlo, anche solo a livello puramente inconscio.
Volevo del resto convincermi che lei sentisse ogni cosa allo stesso mio modo, ma era una pretesa a cui non potevo davvero assurgere, specie considerando l’attitudine che doveva aver sviluppato nei miei confronti in quei giorni. Il punto è che…l’aveva sempre percepita così tremendamente affine e vicina, che qualcosa mi faceva supporre che anche ora, anche in quel momento in cui lei avrebbe dovuto essermi nemica, esser la persona più distante da me, mi era in realtà la più vicina.
La cosa era già parzialmente emersa quel lontano giorno al café, quella volta in cui ero tremendamente giù e allora avevo seriamente rischiato di confessarle ogni minimo particolare, dal padre scomparso e odiato, alle mie stupende finanze, a quanto – come un bambino – sentissi la mancanza della mia famiglia. Alla fine, merito o meno di quell’sms di mia madre, ero riuscito a contenermi e per quella volta nulla di me era stato rivelato… Qualcosa però mi diceva che se volevo davvero ricominciare con lei allora non dovevano esserci barriere tra noi, lei doveva capirmi davvero, conoscermi così da analizzare a sua volta come e perché avevo reagito in quel modo e solo così avrebbe potuto giustificarmi. Ero disposto a mettere in ballo anche il mio … senso di orgoglio, sì, per lei.
Di fatto sentivo di non perderlo se si trattava di uno scopo tanto elevato e soprattutto se si trattava di una persona come lei che, per quanto cercasse di dimostrarmi l’opposto, doveva tenere a me o, se non altro, ci aveva tenuto un tempo non tanto remoto.
L’unico dramma ora era che non avevo la più pallida idea del punto da cui partire di come sviluppare la cosa: avevo semplicemente abbozzato quell’inizio e lei aveva reagito l’istante immediatamente successivo, con quelle parole che … che cosa devo dirvi? Mi agghiacciarono? Non fu tutto il discorso precedente, quelle accuse sul mio sentirmi in colpa e cavolate simili, perché quelle erano solo una protezione se vogliamo ed era più che intuibile e giustificabile al contempo che mi dicesse così.
No, quello che mi fece male e che mi colpì davvero fu quell’inutilità sottolineata a riguardo di quel nostro incontro.
Che cosa significava realmente?
Un mezzo dubbio lo avevo e si ricollegava strettamente a quel dubbio che mi aveva già insinuato in mente al telefono: l’aver appunto davvero eliminato la radice di ogni problema e di ogni legame, cancellandomi così perennemente dalla sua vita. Il punto era che ora mi sentivo responsabile per quella vita e per quell’esserino, ma non nel senso che intendeva lei… Quella responsabilità che mi appesantiva il cuore era anche fierezza, orgoglio, consapevolezza che nel bene o nel male avevo dato origine a qualcosa, anzi, qualcuno e che tutto questo l’avevo fatto con lei, che era l’unica da cui potessi sperare un aiuto simile.
Ecco, l’avevo detto, anche se solo nella mia mente – per ora – quella consapevolezza era finalmente emersa: il punto era che volente o nolente con Ellie riuscivo davvero a progettarmi nel futuro, a darmi un futuro e in qualche modo…sì, se mai avessi dovuto sognarmi una famiglia, c’era lei.
C’era quel noi, che dunque non poteva esser stato annichilito con tanta facilitò, o lo saremmo stati noi stessi.
Dicono che conti molto di più il sentimento del cuore…Che la vera sconfitta non è nella carne ma nell’anima. Che tradire una persona vuol semplicemente dire arrivare a rinnegarla al punto da sperare che facciano a lei ciò che dovrebbero fare di male a te.
Io mi ero messo alla prova: mi ero domandato che cosa avrei fatto e se avessi voluto sperare nulla del genere e la risposta era una, chiarissima, cioè che avrei davvero dato la vita per lei in quel momento. E non solo in quel momento…ma per tanto…forse per sempre, chi lo sa. Odiavo quel termine, perché sembrava banalizzare ogni cosa.
Il punto era che ero giunto alla conclusione di poter compiere qualsiasi sacrificio per quell’affetto, quindi anche lavorare per guadagnare e studiare al contempo e che in fin dei conti nemmeno mi sarebbe pesato, sapendo per chi era.
Ora però si tornava sempre al fulcro centrale della questione…Di tutto questo lei continuava a non sapere esattamente nulla e le cose da spiegare tra novità e arretrati erano così tante che mi sentivo davvero sperduto.
In tutto questo continuavo a restare a fissarla, senza dire niente dopo quelle sue parole tanto potenti… Guardavo le sue mani infilate nelle tasche, nascoste quasi – mi dicevo – da me.
Sospirai ancora e presi di nuovo un gran respiro prima di risponderle cercando di calmarmi: ”Ti sbagli Ellie. E’ vero, non ho alcun debito nel senso che intendi tu al momento… E non mi sento allo stesso tempo per niente in colpa, sempre, per lo meno, per come intendi tu la cosa. Ma è altrettanto vero che mi sento in colpa e responsabile e in debito nei tuoi confronti.” cominciai sottolineando bene certi termini in quella seconda frase. ”…Sai perché?” domandai retoricamente, mentre la voce tendeva a incrinarsi costringendomi a una pausa ”Perché quello che mi hai dato da quando ti conosco ha un valore immenso e non posso dimenticarlo… Non posso dimenticare te. ” feci di nuovo una pausa e poi involontariamente un passo verso di lei. ”…Ho sbagliato una settimana fa e quest’incontro non può quindi esser inutile, perché anche se tu ora mi mollassi, solo, devi lo stesso sapere che io non vorrei questo e devi sapere perché ho reagito tanto da imbecille… ”.
A questo punto fissai gli occhi nei suoi…”Datemi un segno, vi prego” mi trovai a sussurrarmi in testa, sperando appunto che la sua reazione, anche se fosse stata solo silenziosa, potesse darmi un barlume di speranza.

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Era davvero questo che volevo? Allontanarlo indissolubilmente da me, fare in modo che questa volta se ne andasse senza più voltarsi indietro? Dato il mio atteggiamento, non sembravano esserci altre spiegazioni. Mark aveva tentato di riavvicinarsi, in un modo o nell’altro. Seppure goffamente, seppure, almeno secondo il modesto parere, quando ormai era troppo tardi… però almeno aveva provato. E, per quanto, momento dopo momento, mi paresse sempre più abbacchiato, se non altro era lì, davanti a me, e qualcosa mi diceva che non avrebbe desistito così facilmente da quel proponimento.
Cosa mi diceva dunque la testa? Che cosa volevo io? L’orgoglio, ovviamente, era del tutto convinto sulla correttezza del procedere lungo quella strada che avevo già inaugurato e che, comunque, conoscevo bene. Non sarei stata ovviamente maleducata o visibilmente cattiva, ma non ci sarebbe voluto molto per sfoggiare le mie doti da stronza provetta e cercare di farlo scappare a gambe levate. E’ vero, a tirarmi giù c’era il ricordo di come, in precedenza, questo mio piano avesse già bellamente fallito. In quel caso, però, dovevo ancora avere una qualche attrattiva ai suoi occhi. Insomma, non starò a rispiegarvi tutta la storia perché, sebbene l’avessi accettata, ora mi faceva solo male, specie dopo tutto quello che era successo. Sembrava quasi degradante, in effetti, considerare che, se non fosse stato per quella scommessa idiota e per quei cretini dei suoi amici, non sarebbe mai successo nulla. Saremmo rimasti due completi estranei, persi in quel mare di gente e… lontanissimi da quel problema.
Ecco, per certi versi era questo ad indurmi a procedere su quella strada. Allora, probabilmente, oltre al brivido del momento, non aveva nulla da perdere o da soffrire, cercando in tutti i modi di abbattere le mie difese. Adesso, questo è chiaro, tutto era cambiato. Ora sì che era in bilico. Rischiava. Era il suo stesso futuro ad essere in pericolo. E la colpa era solo mia. O meglio, di ciò che avevamo fatto. Insieme.
Volevo cacciarlo, quindi, ma allo stesso tempo mi rendevo conto di quanto la cosa mi avrebbe straziata. Non l’avrei mai ammesso a me stessa, o comunque, non consapevolmente. Non era solo questione di orgoglio, quella. Sono sempre riuscita a cavarmela da sola, in ogni situazione. Sarò anche ambiziosa, ma, ovviamente, la cosa è solo un pregio, ai miei occhi. Fin da bambina è sempre stato così, non ho mai avuto bisogno di un vero apporto esterno, per fare ciò che volevo. A maggior ragione non dovevo averne bisogno adesso, dopo che lui aveva bellamente deciso di buttare tutto all’aria, e, soprattutto, di allontanarsi da me. E’ vero, non riuscivo a risolvermi, ma testarda, come mio solito, finii per pensare che ce l’avrei fatta benissimo da sola. Dopotutto lui non voleva. Erano solo sensi di colpa, i suoi, lo sapevo benissimo.
D’altro canto, però, c’era anche quella consapevolezza. Per quanto desiderassi davvero allontanarlo e rendergli la sua vita, sapevo che la mia, dopo un ulteriore e definitivo abbandono, si sarebbe incrinata. Mi vergognavo al solo pensiero, sentendomi una di quelle idiote che non possono fare a meno di sostentare se non hanno un uomo di fianco. Con mio grande orgoglio, non ho mai fatto parte di questa categoria. Anzi, ritengo parecchi gradini più in basso di me quelle che formulano questo genere di desideri. Ho sempre voluto essere libera, indipendente… me stessa, per dirla in breve. E allora perché, adesso, mi vergognavo come una ladra, mentre quell’idea mi attraversava la mente? Avevo bisogno di lui. Non tanto perché sentissi la necessità di un appoggio, però. Semplicemente, era lui. Era Mark. Lo ammisi e subito lo cancellai, ma per un istante mi passò per al testa che bastava anche solo questo. Era lui quello che volevo, tutto ciò di cui, lo riconosco, sentivo di avere davvero bisogno.
Probabilmente avrei dovuto dare ascolto alla mia razionalità fin da primo momento, quando avevo cominciato ad accorgermi che non era più quello con cui fare ora la cazzona, ora la filosofa nei momenti più improbabili della giornata. I miei sorrisi non erano i soliti sorrisi amichevoli che riservavo a ben poche persone; il solo pensarlo mi faceva venire voglia di gongolare come una cretina… vederlo, poi, rendeva il tutto ancora più evidente. I miei sorrisi erano palesi, di quelli che non riesci a nascondere neanche se indossi una maschera. Ci sarà sempre lo sguardo, infatti, pronto a rivelare il tutto, pronto a far vedere quello che ti passa per la testa. Allora, quindi, avrei dovuto intuirlo. In effetti, in parte l’avevo fatto, ma, testardamente, mi ero detta di poter benissimo resistere a qualcosa di tanto infantile ed inaspettato.
Invece, naturalmente, sappiamo tutti com’è andata. Anche qui, l’ennesimo vanto di sempre che si è divertito a ritorcersi contro la sottoscritta. Mi sono sempre reputata un perfetto mix tra razionalità ed istinto. Avevo agito esattamente in questo modo, finendo però in un circolo vizioso da cui, me ne rendevo conto, forse non sarei più uscita. Potevo infatti raccontarmi quello che preferivo, ma la sostanza non cambiava. Il solo guardarlo faceva sussultare ancora di più il mio cuore agitato, mentre, pur ripetendomi di dover trovare una strategia per farlo sparire, per il suo bene, se non altro, mi sentivo malissimo al solo pensiero di non poter più incontrare quello sguardo. Era da lì che tutta la sua sofferenza si dipartiva, spargendosi per quel viso tanto conosciuto e, d’accordo, sospirato.
Ancora, quindi, finii per accarezzarlo con un’occhiata, mentre mi tornavano alla mente tutte le volte in cui, quel gesto, si era effettivamente concretizzato. La morbidezza della sua pelle, il mio lamentarmi per la sua pigrizia nel radersi la barba… eppure, adesso, avrei dato chissà cosa per poter sfiorare quella peluria rossiccia e pungente senza avere e farmi alcun problema, proprio come avevo fatto migliaia di altre volte, nei mesi precedenti.
Le mie stesse parole, però, tornarono a farsi sentire. Gli avevo risposto a tono, anzi, molto peggio, forse, di quello che ci si sarebbe aspettati. Ma l’intento, almeno per una parte della mia mente, era chiaro. C’era una me, lì dentro, che desiderava davvero ferirlo. Voleva prendersi la sua vendetta, per tutto quello che aveva fatto. Insomma, era sempre lei, quella parte del mio essere che voleva convincersi che fosse tutta e sola colpa sua. In parte era sicuramente così, però, razionalmente parlando, sapevo di non poter davvero credere in una tale idiozia. Ad ogni modo, l’orgoglio lottava fianco a fianco con quel pungente desiderio di vendetta, sebbene, è vero, non gioisse, nel vederlo reagire in un certo modo.
Stavolta il silenzio non fece in tempo a calare, tra di noi, prima che lui rispondesse. Non che avessi abbassato lo sguardo, nello sputargli in faccia tutta quella serie di parole, ma, adesso, mi guardava se possibile, ancora più intensamente rispetto a prima. Nei suoi occhi lessi la mia stessa frustrazione, prima di vederli abbassarsi, per un istante, ad osservare chissà cosa. Le labbra strette in una smorfia, aspettavo sempre più impaziente che parlasse. In questo caso, ve l’ho detto, non si fece affatto attendere. Dopotutto, era il suo turno, nell’attaccarmi. Se non altro, eravamo sempre stati leali, nei nostri scontri verbali. Potevamo urlarci in faccia quanto volevamo, ma i tempi dell’altro erano sempre rispettati; anche nelle litigate più accese, c’era sempre un barlume di onestà, se vogliamo, di rispetto, appunto, nei confronti dell’altro. Provavo ancora rispetto per lui? … Purtroppo sì. Potevo tentare in tutti i modi, ma non sarei mai riuscita a cancellare la cosa.
Mi sbagliavo, così, secondo lui? Ma che strano! Avrebbe potuto dirlo in modo anche più, umh, colorito, però. Di certo non me la sarei presa di più, anzi! Rieccoci a quella sua compostezza che tanto mi aveva dato sui nervi, agli albori della nostra conoscenza. Avrebbe dovuto essere incazzato a sua volta, dannazione! Non lo stavo forse trattando, seppure fossimo lì da pochi minuti, in modo tagliente ed antipatico? Perché si ostinava ad essere così… gentile, nei miei confronti? Una piccola, piccolissima parte di me cominciò a mormorare che non me lo meritavo. Non meritavo quel trattamento. Non per come ero fatta, ecco. Quando poi lo sentii continuare, anche la vocina si ringalluzzì. “Non posso dimenticare te.”
Quelle parole mi immobilizzarono, rischiando di togliermi il fiato, ma, in un modo o nell’altro, fui quasi sul punto di ribattere. Dovevo urlargli che sì, magari non poteva dimenticare me… ma cosa mi diceva del resto, del…? No, non volevo chiamarlo con quel nome. Non lo era nemmeno, probabilmente, ancora. Tuttavia, per quanto i miei propositi fossero buoni, lo vidi avanzare nella mia direzione. Stavolta dimenticai davvero di respirare, limitandomi a guardarlo tra lo sprezzante e il malinconico, tornando a cercare i suoi occhi. Non poteva fissarmi così, con quell’espressione da cane bastonato! E non poteva nemmeno dirmi quelle parole, che già mi facevano tremare le ginocchia…
“Neanche io lo volevo!” ammisi, tutto d’un colpo, senza nemmeno riprendere fiato. Subito mi sentii orribilmente avvampare, mentre cercavo disperata un modo per soppesare quelle parole. Erano così dannatamente chiare… nemmeno io volevo quello che invece era già successo. Nemmeno io desideravo essere abbandonata da lui. L’unico modo per salvarsi era incalzarlo. “Apriti cielo! L’hai capito, finalmente!” lo schernii con tono acido. “Imbecille è troppo leggero, però…” Mi morsi appena le labbra, continuando a fissarlo, ora che mi ero appena ripresa, con tono di sfida, piena di sarcasmo. “E allora? Cos’altro dovrei sapere? Perché sei stato tanto idiota, insensibile, egoista…?” cominciai ad elencare, per nulla intenzionata a fermarmi, continuando con aggettivi ben peggiori. Ne avevo tutto il diritto, e che cazzo!
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