Non ci si libera di una cosa evitandola, ma soltanto attraversandola., lun 04.02.2008 / pomeriggio

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view post Posted on 10/3/2012, 17:18
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elliepost10a
eloise hawking → student
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Guardai la busta. Per l'ennesima volta guardai quella dannata busta, senza riuscire a fare altro che rileggere l'intestazione, cercando di mantenere la calma. Non me l'aspettavo, in realtà, non credevo davvero che sarebbe arrivata così presto. Eppure, circa un quarto d'ora prima, tornando dall'università, avevo visto che nella posta c'era qualcosa. Sul momento non ci avevo neanche pensato, soprattutto perché, almeno mentre ero a lezione, cercavo di svuotare la mente in tutto e per tutto. Per non parlare poi del fatto che erano giorni che evitavo Mark in tutti i modi possibili ed inimmaginabili, dandomi sempre una mossa negli spostamenti, in modo da non essere intercettata da niente o da nessuno.
In effetti, non era l'unico che evitavo. Erano giorni che mi tenevo lontana da tutto e da tutti. Da quando, insomma, ero andata a fare quel dannato esame. Il giorno stesso Priscilla mi aveva fatto notare quanto fossi pallida e, per poco, non le avevo tirato il libro di letteratura in testa. Un altro commento del genere e sarei esplosa. O meglio, ero molto combattuta, in realtà. Mentre la maggior parte di me era fermamente decisa a non farsi scappare una parola, ciò che restava, per quanto piccolo ed insignificante, moriva dalla voglia di sfogarsi. Sì, avrei voluto anche solo prendermela con qualcuno, scaricare addosso al primo malcapitato tutta quella frustrazione e, in particolare... quella paura.
Ecco quello che sentivo anche in quel momento, forte e chiaro. Paura. Tanta, troppa paura. Emanata da quella busta che tenevo tra le mani da più di dieci minuti, senza riuscire a fare altro che fissarla con fare spaventato. Arrivata in casa, dopo essermi chiusa a chiave la porta dietro le spalle ed aver gettato la tracolla in camera, avevo sparpagliato la posta sul tavolo della cucina, per smistarla, come mio solito, facendo una pila per ogni componente della famiglia. Papà, mamma e... io. Non mi arrivano mai lettere. Quasi mai. Il mio subconscio sapeva che sarebbe arrivato quel momento, ma ancora non mi ero del tutto rassegnata alla cosa. Così, procedevo con molta lentezza, spinta, probabilmente, da quell'inconsapevole certezza. Avevo lo stomaco sottosopra, tanto per cambiare, e l'odore di qualcosa di non ben identificabile dentro il frigo mi faceva tornare quello schifosissimo senso di nausea. Tuttavia, anche solo prestare attenzione a quegli stupidi particolari mi avrebbe destabilizzata. Continuavo perciò a comportarmi come se niente fosse, o almeno, ci provavo. Alla fine, infatti, mi rimase in mano solo quella lettera. Arrivava dall'ospedale. E portava come destinatario miss Eloise Hawking.
Una vocina idiota e sadica cominciò a ripetermi che era arrivato il momento della verità. Fanculo anche a questo! Fanculo a quelli che, solitamente, erano i miei principi morali e tutto il resto! Non volevo la verità. Non stavolta. Anzi, diciamo pure che non volevo niente, se non lasciarmi alle spalle tutta quella faccenda e... procedere come prima. Era mai possibile che non ci fosse un attimo di pace, in tutto questo? Quel mese appena passato voleva essere un chiaro avvertimento, forse... non avrei dovuto agire così. Non avrei dovuto adagiarmi sugli allori, farmi cullare da quel clima surreale che si era venuto a creare.
E dire che l'anno nuovo sembrava essere cominciato nel migliore dei modi. Proprio durante la notte di Capodanno, dopo mille ripensamenti, occhiatacce e cose non dette, eravamo usciti allo scoperto. In realtà la colpa era stata solo sua, dato che, con un gesto plateale, mi aveva baciata davanti a tutti, dopo il conto alla rovescia e il brindisi. Lì per lì avevo quasi provato l'impulso di prenderlo a pugni per questo, ma poi, al solito, mi ero ritrovata completamente presa dalla cosa, proprio come un'idiota. Non potevo farci nulla, però, se in sua compagnia mi sentivo tanto bene... era preoccupante, questo sì, ma il mio cervello tendeva a mettere la cosa da parte. E non solo. Si faceva trasportare tanto, troppo anzi. Se solo avessi ragionato un po' di più... non era giusto che la mente mi si offuscasse in quel modo, quando pensavo a lui. Non lo era affatto.
Anche adesso, stringendo la lettera tra le mani, non riuscivo a visualizzarlo del tutto lucidamente. Mi sentivo del tutto svuotata, priva persino della forza di infuriarmi. Tutto era cominciato in modo soffuso, senza che nemmeno me ne rendessi conto. Probabilmente l'effetto da lui provocato aveva contribuito nel mio non accorgermi assolutamente di nulla. Mi sentivo così allegra e leggera da non prestare minimamente attenzione a tanti piccoli che segnali che invece, in altri contesti, avrebbero fatto allarmare chiunque. Certo, c'è anche da dire che, in quanto sospetti, era davvero difficile ricavarne... c'era sempre stata attenzione, avevamo fatto attenzione. Perché mai andare a pensare a certe cose? Avevo ben altro di cui preoccuparmi. E poi, insomma, in questa stagione ci si becca sempre qualcosa del genere. Malessere diffuso e generale, stanchezza, nausea... avevo persino tentato di sfruttare la cosa per sfuggire ad una festa a cui Prì voleva trascinarmi, ma non c'ero affatto riuscita. Niente febbre, niente raffreddore... niente di niente. Solo quell'insieme di sensazioni, che ormai andavano avanti da alcune settimane, e che si ripresentavano, almeno inizialmente, senza alcuna regolarità, come semplici indici di malattia imminente.
Di particolari inquietanti, è vero, ce n'erano anche altri. Uno sopra a tutti, il quale, probabilmente, fu quello che mi fece entrare in allarme. Non dico di essere una persona esattamente regolare, in certe cose, ma... una cosa del genere mi era successa solo una volta, poco prima del primo esame all'università. In quel caso ero così ansiosa e preoccupata che le mie amiche non erano venute a farmi visita. Al tempo c'era Jamie di mezzo, ma avevamo le nostre, umh... precauzioni. Quindi, sì, penso che il punto di rottura fu questo. Se, fino a quel momento, dunque, avevo folleggiato allegramente, godendomi quella situazione... cominciai invece ad incupirmi. Anche qui, fu una cosa del tutto graduale, della quale, in effetti, io stessa non mi resi del tutto conto, inizialmente. Non sono certo famosa per la mia gentilezza; al contrario, lo sanno tutti, l'acidità fa parte di me. Nessuno, dunque, notò la cosa, io in primis.
Anche in quanto a sbalzi d'umore, in effetti, non c'era nulla di strano nemmeno in questo. Sono sempre stata lunatica, quindi nessuno si sorprendeva, se un momento ridevo e quello dopo ero pronta ad uccidere chiunque con lo sguardo. Certo, è anche vero che, un pomeriggio, per poco non scoppiai a piangere, nel bar dell'università... naturalmente stavo aspettando Mark, a fine lezione, per prendere un caffè insieme. Erano già passati dieci minuti, però, e di lui nemmeno l'ombra. Ora, so anche io che è un gran ritardatario, ma... non so cosa scattò, dentro di me. Cominciai a sentirmi in ansia. E dovetti fare davvero un grande sforzo, quando finalmente lo vidi arrivare, per non scoppiare in lacrime. Il bello è che, dopo giusto una manciata di minuti, la rabbia per la cosa si impossessò di me, insieme ad un istinto manesco, per poi essere seguita, invece, da un fare piuttosto maniaco... insomma, da un estremo all'altro, senza che nemmeno me ne rendessi conto.
Quattro giorni prima ero tornata a casa con un intero sacchetto pieno di quei... cosi. Comprarli non dico fosse stato imbarazzante, ma tremendo sicuramente sì. Per quanto non mi interessi mai di quello che la gente fa o dice, mi ero davvero sentita malissimo, con lo sguardo della cassiera puntato addosso, mentre faceva scorrere quelle scatoline di cartone sopra il nastro di plastica. Poco prima mi ero congedata da tutto e da tutti, a fine lezione, scappando appunto a fare questa commissione. La nausea e la spossatezza mi attanagliavano da quella mattina, quasi a ricordarmi di portare fino in fondo la mia decisione. Eppure, non facevo che ripetermelo... non poteva essere, dannazione!
Già quei pezzi di plastica, però, avevano dato un verdetto. In tutto ne avevo comprati e provati sette. Solo l'ultimo si era discostato dai precedenti, accendendo in me una flebile speranza. Dopo tutti quei più... un bellissimo e confortante meno. Lo diceva anche la scatola che non erano del tutto affidabili. Poi, però, finiva a farneticare sul sesto senso di coloro che li compravano. Robaccia. Idiozie! Lo ammetto, ero rimasta a fissarli, sconvolta, quasi un'ora, prima di decidermi a buttarli, tutti, nel cassonetto in fondo alla strada, il più lontano possibile da casa. Mi sentivo da schifo. In tutti i sensi.
Dicevo, però, che fino a quel momento non vi era certezza. Ma adesso stringevo quella busta tra le mani, sapendo che, con quell'ultimo gesto, tutto sarebbe diventato inequivocabile. La mattina dopo i miei fantastici acquisti mi ero sottoposta ad un prelievo. Per quanto volessi fuggire dalla cosa in tutti i modi possibili ed inimmaginabili, sapevo di dover fare chiarezza. In fondo, questo è sempre stato uno dei miei propositi più grandi... sapere la verità. Su ogni cosa e in ogni occasione.
Così, alla fine, presi coraggio e, appollaiata su una delle sedie della cucina, cominciai a scartare l'involto. Appena il foglio fu sgusciato via dal tutto, mi costrinsi a leggere ogni cosa, riga per riga. Dovevo andare con calma, con molta calma... alla fine, però, fu tutto inutile. Una sola, semplice parola saltava all'occhio. Ed era del tutto inequivocabile. Positivo.
Non credo di esagerare dicendo che, in quel momento, il mio cuore saltò un battito. Non riuscivo a pensare, a respirare, a vedere. Non riuscivo a fare nulla. Tutte quelle sensazioni e quei malesseri che fino a quel momento avevo tentato di ignorare mi si riversarono addosso, tutti in un colpo solo. Ecco, questa sì che era la fine.
L'unica cosa che riuscii a fare, con mano tremante, fu afferrare il cellulare, che avevo abbandonato sul tavolo. Non riuscii ad evitare che gli occhi mi si offuscassero, mentre annaspavo contro i tasti. “Vieni qui. Subito. E' importante.” telegrafai con maggiore freddezza possibile, mentre i singhiozzi tanto trattenuti e spaventati cominciavano a scuotermi.
Capita a volte di sentirsi per un minuto felici. Non fatevi cogliere dal panico: è questione di un attimo e passa.
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Edited by #peacemaker - 13/3/2012, 00:22
 
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Working on a dream
view post Posted on 20/3/2012, 14:10




markpost6d
Mark Pace → student
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Sapete, dicono che esistono dei baci nella propria vita che non si dimenticano mai. Quando dico così, in realtà, non intendo certamente il ricordarli da un punto di vista prettamente mnemonico: sarebbe piuttosto preoccupante non ricordare in effetti chi si è più o meno baciato, magari escludendo quelli dati sotto alcool. No, quello che si vuol dire è che quei baci, nonostante siano stati dati anche millenni prima, continuano a rimanere impressi sulle nostre labbra, in ogni piccolissimo tratto e goccia umida, in ogni aspetto, positivo e negativo. Finora questo mi era capitato solo il mio primo bacio, appunto, per quanto goffo e impacciato mi fosse sembrato sul momento. Eppure mi bastava chiudere gli occhi e scostare appena alle labbra, ripensando a quel momento per tornare a viverlo. Certo all’epoca ero solo un ragazzino e in realtà quella storia non durò nemmeno molto.
Certo avevo avuto altre ragazze poi, storie più o meno impegnative, ma mai una cosa simile era tornata ad accadere, al punto che mi ero convinto si trattasse solo dell’evento in sé che aveva segnato l’inizio di quell’apprendimento.
Ne ero fermamente convinto e ne sarei ancora se non fosse che da un mese avevo dovuto ricredermi. Quel bacio che Ellie aveva lasciato sulle mie labbra, dapprima in modo totalmente attivo, stupendomi e cogliendomi alla sprovvista, ma che poi io avevo trasformato in una comunione reagendo al mio desiderio, quel bacio –dicevo- continuava a attraversarmi la mente ogni volta che poteva, fossi con lei o solo. E allora, in entrambi in casi, tutto ciò che desideravo era poter ottenere di nuovo quel contatto, che se ero con lei veniva subito appagato. Era sempre da quel giorno che formalmente ci frequentavamo, anche se di fatto nessuno ne aveva saputo niente fino a Capodanno, quando di nuovo tutto avvenne per colpa mia, come si diverte a rinfacciarmi Eloise.
Non so, se mai fossi davvero solo io il responsabile di tutto ne sarei comunque fiero, perché ero stufo di nascondere qualcosa che a mio modo di vedere è solo positivo; comunque, ad onor del vero, la colpa è anche e soprattutto del vischio sopra di noi e della tradizione inglese ad esso legata: che poi io l’avessi sospinta proprio lì apposta, al momento dello scattare del nuovo anno, proprio nella festa che segnava la fine del 2007, poteva essere un particolare trascurabile.
In quell’occasione mi ero sentito orgoglioso di poter mostrare a tutti l’affetto che ci legava e che comunque, in qualche modo, lei aveva scelto me e di stare con me. Perché effettivamente anche se forse non l’avevamo mai esplicitamente ammesso, era questo che eravamo diventati: una coppia, ormai riconosciuta da tutti come tale.
L’effetto che riusciva ad avere su di me era straordinario: mi bastava un istante per perdere completamente il controllo su me stesso, in un atteggiamento che mi faeva sentire quasi maniacale ma che comunque non si poneva mai a limitarmi.
Non riuscivo a stare nemmeno un’ora senza sentirla almeno con un sms: in effetti già eravamo a questi livelli quando eravamo amici, quindi suppongo non ci fosse da stupirsi se ora le cose andavano in quel modo. Il punto è che quello che c’era tra noi era speciale, perché a differenza di molte storie precedenti, esisteva tra noi anche quella complicità, quel sostegno reciproco e quella sincerità che mi era mancata altre volte. Si sa che non sono tipo da andare a raccontare i miei fatti in giro, ma con lei riuscivo parzialmente ad espormi e almeno sugli avvenimenti contemporanei era del tutto aggiornata, persino di quel mio sentirmi bloccato in un lavoro che non sentivo mio, in una facoltà che odiavo e in una città che avrei volentieri abbandonato se solo lei non fosse giunta a rischiararla. Tutte queste vi sembreranno delle stronzate che si dicono in un attimo, ma per me era già importante e strano arrivare ad ammetterle con un altro essere vivente: c’ero sempre solo io a ascoltarmi, anche perché non avrei mai voluto ferire nessuno e rischiare di passare per irriconoscente. Avevo avuto quella possibilità, data dai sacrifici di tutti quindi ora non potevo sprecarla per capriccio e non volevo anche se poi con lei mi veniva naturale sfogare le mie frustrazioni.
Eravamo sempre andati d’accordo, mentre le nostre vite procedevano come sempre: in realtà non era cambiato poi tanto il mio stile di vita. Ci vedevamo tutti i giorni, certo, ma quello avveniva anche prima: l’unica differenza erano ovviamente le serate completamente soli e le effusioni scambiate in giro per la via, con una voluttà da parte mia che mi stupiva sempre. Ripeto, ero fiero che la gente mi vedesse con Ellie, perché il mio inconscio era convinto che nessun’altro meglio di noi due avrebbe potuto fare qualcosa per soddisfare del tutto l’altro.
In realtà era solo da qualche giorno che le cose erano cambiate stranamente, ma non vi avevo dato peso, pensando che comunque, fosse per via dell’esame che avrebbe dovuto dare di lì a poco o per stress accumulato. Non dico che mi evitasse, perché non lo farebbe mai, ma comunque c’era stata una tendenza a ridurre gli incontri faccia a faccia, sebbene per cellulare ci sentissimo di continuo e lei mi sembrasse comunque quella solita adorabile Ellie.
Quel pomeriggio stavo studiacchiando con poca attenzione un libro universitario, seduto nella biblioteca comunale, quando sentii vibrare il cellulare nella tasca. Subito, emozionato nel modo in cui ero sempre quando sospettavo fosse un suo sms, estrassi il nokia dalla tasca e mi misi a scorrerne il testo.
Non so, non dico che rimasi male a leggere quelle parole, ma sicuramente mi shockarono. Non sapevo come interpretarle, questa era la verità. Come leggere qualcosa che non aveva intonazione? Era forse una richiesta d’aiuto, un rimprovero o qualcosa di normale che io stavo solo esagerando, leggendolo con troppa importanza per quelle frasi telegrafiche e puntate? Sembrava un telegramma non c’era dubbio a riguardo, ma per quale motivo? E tutto d’un tratto? Spontaneamente, non potendo fare a meno di trattenere l’ansia per lei, cominciai a sistemare le mie cose e mentre già mi avviavo verso l’uscita della biblioteca in direzione della metro, estrassi il telefono per comporle un sms di risposta: ”Sto arrivando, Ellie… Dieci minuti e sono da te.” Non dico che feci il tragitto per la metro di corsa, ma sicuramente camminavo in modo molto affrettato, tanto che andai pure a scontrarmi con due vecchiette che ebbero vanamente da ridire. Al solito poi rischiai di rimanere a metà nella chiusura delle porte del treno, ma non me ne stupivo più dato che facevo sempre così, il balzo sopra all’ultimo secondo. Lei non risondeva più nulla e la mia ansia cresceva. Cos’era che le faceva mandare quel messaggio così allarmante? Finalmente coprii la distanza fino all’edificio di casa sua e lì suonai il campanello, trepidante.
It's easy to cry when you realize that everyone you love will reject you or die.
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eloise hawking → student
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Quel gesto che tanto odiavo e dal quale cercavo sempre di astenermi in tutti i modi possibili ed inimmaginabili, adesso, molto stupidamente, sembravano l'unica cosa da fare. Avevo trattenuto quel magone per troppo tempo, non solo non parlandone con nessuno, ma non concedendo nemmeno a me stessa il privilegio di pensarci e di lasciarmi andare allo sconforto. Avevo provato ad essere forte, come mio solito, a tirare avanti come se niente fosse. Mi ero infine resa conto, però, di quanto la cosa fosse insensata. Non c'era nulla per cui essere forti, ora. Non c'era nulla da fare, semplicemente, se non arrendersi all'evidenza. Mi era appena piombato addosso il casino più grande della mia vita e nemmeno me n'ero resa conto, almeno inizialmente.
In effetti, a farmi star male, era anche la mia stessa stupidità. Sin dal primo istante mi ero comportata da completa... sprovveduta. E non ero nemmeno rinsavita! Anzi, non facevo che peggiorare e peggiorare e peggiorare... più ci pensavo, più la nausea tornava ad assalirmi, mista a quelle fitte odiose all'altezza dello stomaco. I singhiozzi continuavano a farmi rabbrividire, mentre una parte di me cercava di autoconvincersi che, almeno, così facendo, mi sarei sentita un pochino meglio. Certo, non ho mai creduto nel potere 'curativo' delle lacrime, ma, stavolta, ero totalmente nel caos. Qualsiasi scusa era buona per cercare un effimero appiglio, sebbene sapessi benissimo che non c'era via di scampo. Oltretutto, una volta tornata lucida, mi sarei sicuramente rimproverata quell'atteggiamento stupido ed infantile. Cosa credevo di risolvere, stando lì a piangere su qualcosa di quasi irreparabile?
Scivolai sulla sedia, incrociando le braccia sul tavolo, per nascondervi il viso. Odiavo sentire i miei stessi lamenti rimbombarmi nelle orecchie. Mi sembravano qualcosa di assurdo, di... estraneo. Non potevo essere io quella che stava piangendo così, con fare tanto sconsolato...! Non era... non era da me. Ma cos'è che era da me, ormai? Ne avevo combinate fin troppe, di cose assurde, nell'arco di quei mesi. Non avevo fatto che stupire me stessa e, alla fine, mi ero persino arresa, sotto certi punti di vista, a quella novità. Avevo accettato che la sua presenza mi stravolgesse, e, anzi, me n'ero persino beata, nell'ultimo periodo. Molto, molto stupido, naturalmente.
Forse era anche per questo, mi dicevo, che mi sentivo tanto impotente. Non mi ero mai trovata in una situazione del genere, avendo sempre avuto tutto sotto controllo. Insomma, per quanto fossi stata presa da qualcosa o da qualcuno, il mio orgoglio e la mia mania di primeggiare non avevano mai permesso che perdessi la bussola. Dovevo sempre avere una visione d'insieme, dovevo poter prevedere come mi sarei comportata in questa o quella situazione. Nulla a che fare, insomma, con quello che invece era appena successo... non solo la mia razionalità era andata a farsi benedire da chissà quanto tempo, ma, non si sa come o perché, avevo permesso che lui mi si avvicinasse come mai nessuno aveva fatto prima. Persino i miei amici più stretti, vedi Priscilla e compagnia, non erano a conoscenza di certi dettagli, di certi pensieri che mi passavano per la testa. Quasi epicamente, imputavo tutta la colpa a quel mio fidarmi di lui, sussurrato senza esitazioni in un momento di totale sconforto. Era lì che le cose avevano cominciato a precipitare, prendendo una piega tutt'altro che positiva. O meglio, questo era quello che, adesso, a posteriori, mi dicevo. Allora, pur essendo in parte preoccupata, un insano masochismo mi aveva spinta a lasciar correre, non facendo che peggiorare ulteriormente la situazione.
Fino... fino a questo, chiaramente. Una parte di me continuava a non volerci crederci, quella stessa parte, probabilmente, convinta che le lacrime servissero a qualcosa. Ma, in un classico esempio di tragica ironia, la mia tanto amata ma fino ad allora perduta razionalità tornò a farsi sentire. Non c'erano vie di scampo, né false illusioni. Le cose stavano così e basta, e la colpa... era tutta mia. Lo sapevo, in fondo lo sapevo benissimo, ma non volevo accettarlo. Trovavo invece molto più facile incolpare Mark di tutto questo, dato che, comunque, era innegabile che tutto fosse partito a causa della sua presenza. Quello stesso casino... non cadiamo in stupidi cliché. Da sola, però, di certo non mi sarei ritrovata in quella situazione.
Il piano su cui ero appoggiata vibrò, segno che mi era arrivato un messaggio. Impiegai un po', però, ad alzare la testa, e, soprattutto, per una qualche sciocca ragione non volli leggere ciò che diceva quel piccolo schermo così, ancora tra le lacrime. Mi imposi di smetterla, asciugandomi con il dorso della mano gli occhi. Tremavo, questo è innegabile. Tremavo come un'idiota. Fu mentre sollevo il cellulare che, per un istante, ci pensai. Davvero non c'era via d'uscita? Davvero non... potevo risolvere la cosa da sola? In fondo erano tutti ancora all'oscuro di tutto. Mark in particolare. L'avevo appena chiamato, questo sì, ma prima che arrivasse avevo tutto il tempo per riflettere sul da farsi. Una cosa rapida ed indolore, come togliere un dente... rabbrividii al solo pensiero, sentendomi, all'improvviso, un mostro. Avevo seriamente formulato un pensiero del genere? … Voglio dire, non che fossi contro quel genere di cose, ma... come potevo pensarci così, a cuor leggero? E soprattutto... sarei davvero riuscita ad escluderlo da qualcosa che lo riguardava così da vicino?
Mi morsi le labbra, sul punto di scoppiare di nuovo in lacrime, e lasciai ricadere il cellulare sul tavolo. La morsa allo stomaco si fece ancora più intensa e, stavolta, non riuscii a lottare contro quella sensazione. Mi precipitai in bagno, appena in tempo, ripetendo quello che ormai succedeva, sebbene in modo irregolare, da parecchi giorni. Ai brividi di rabbia e di paura ora si erano aggiunti quelli di debolezza, mentre lentamente mi rialzavo, facendo sparire tutto, e raggiungevo lo specchio. Avevo una pessima cera, tra gli occhi rossi cerchiati da pesanti occhiaie e quella smorfia di dolore e disappunto che non riuscivo a far sparire. E poi... mi sentivo così fragile ed impotente... odiavo quella sensazione, ma soprattutto odiavo me stessa. Come avevo potuto permettere che accadesse una cosa del genere?
Sussultai, al suono del campanello, sforzandomi di tornare lucida. Mi sembrò quasi di camminare a rallentatore, mentre andavo al citofono, tanto mi sentivo la testa pesante ed incapace di pensare con chiarezza. Vederlo, nell'immagine sbiadita del campanello, mi fece perdere qualche battito. Aveva una strana espressione dipinta sul volto, una delle sue solite facce indecifrabili che mi facevano impazzire. Tesi una mano per afferrare la cornetta, notando nuovamente quanto fossi pallida e tremante. “Sali, è tutto aperto.” soffiai in fretta, prima di scostarmi da quella vista.
Avevo bisogno di riorganizzare le idee, ma naturalmente non ci riuscivo. Tutto mi si accalcava nel cervello, chiedendo di avere la precedenza. Persino la questione di poco prima, quel dirglielo o meno, rimase per qualche istante sospesa. Ero davvero pronta a farlo?... Non lo sapevo. Con pochi passi tornai in cucina e altrettanto velocemente, dopo aver preso quel maledetto foglio, mi lasciai cadere sul divano. Non volevo guardare in direzione della porta. Non volevo incontrare il suo sguardo, una volta arrivato. Non volevo... pensare, semplicemente.
Capita a volte di sentirsi per un minuto felici. Non fatevi cogliere dal panico: è questione di un attimo e passa.
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view post Posted on 28/3/2012, 22:09




markpost6d
Mark Pace → student
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Se c’è qualcosa che mi spaventerebbe fare, lo dico sinceramente sarebbe ferire le persone che amo. Sono praticamente cresciuto con questo grande ideale del sacrificio, del rispetto, l’idea di rimboccarsi le maniche e tirare avanti per il bene di qualcuno che si affida solo a noi. Mi è stato insegnato che la strada più facile non è sempre anche la più corretta e d’altra parte, con il fantastico orgoglio che contraddistingue gli scozzesi, mi è stato anche dannatamente insegnato che perdonare chi ti tradisce è spesso una gran cazzata. Insomma, la metà delle volte ci rimani fregato e basta. Non dico di essere un vendicativo o comunque qualcuno che fa pagare i debiti, ma sicuramente ho una certa tendenza ai giudizi definitivi e imperativi. Una volta che ho deciso che una persona non è degna della mia attenzione quella persona deve essere espulsa molto semplicemente dalla mia vita, punto. Non so perché stessi pensando a tutte queste cose mentre attendevo lì sotto la porta di casa di Ellie. In effetti in tutto questo c’era il magro viso di mio padre a far da sfondo. Detesto parlarne, ma anche pensarlo non è per niente piacevole. Tutto ciò che ricordo sono solo elementi negativi che non mi sognerei nemmeno sotto fumi peggiori di raccontare. Sono ricordi dolorosi che echeggiano nella mia mente e che detesto con tutto me stesso. Flash… che passano lasciando una traccia schifosa per il resto della giornata. Odierei l’idea di diventare così a mia volta… Lo giuro davvero. Nella vita ho sempre cercato di bilanciarmi tra ciò che era bello da vivere e ciò che ritenevo giusto: ero sempre in qualche modo convinto che le due cose prima o poi sarebbero arrivate a un livello coincidente. Ho sempre un po’ dubitato della cosa. Poi, non so, è arrivata lei che ah scombussolato tutto. Onestamente, quanti uomini hanno il demerito di aver dato il via a una nuova relazione, non con una propria esposizione, ma con un tremendo contraccambio passivo di un bacio? Seriamente, più ci ripenso, più la cosa mi pare tremendamente de-mascolinizzante e imbarazzante, ma soprattutto più mi sorprendo della cosa! Insomma, l’istante prima urla e quello dopo le sue labbra per la prima volta sulle mie. D’accordo suppongo dovrei esser solo fiero di suscitare un certo tipo di reazioni, ma vedete, sin dall’inizio, questo era un segnale che le cose tra noi sarebbero state anomale. Non avevo un cavolo di rapporto del genere da una vita con nessuno… Da almeno un anno e mezzo non ero così intimo con qualcuno… e per vostra sfortuna non intendo fisicamente ma psicologicamente. Quante volte mi ero esposto, quante mi ero ritrovato ad arrossire io (!) , quante ancora avevo espresso ad alta voce pensieri che sarebbero generalmente restati al sicuro nella mia mente.
Ero orgoglioso di tutto questo. Una parte nemmeno troppo secondaria di me mi diceva che quello che avevamo creato era quella coincidenza che cercavo da sempre e che davo per irrealizzabile. Forse con Ellie avevo capito che i due piani potevano davvero coincidere. Avrei persino messo a tacere Cicerone e tutte le sue mille filippiche sulla questione! Piacere o onestà? Ora avevo entrambi.
E tuttavia, ora l’idillio trovava una frattura. Non lo potevo sapere in realtà, non sapevo cosa mi avrebbe atteso, ma mi bastava quel messaggio così gelido per comprendere che di sicuro c’era un problema.
Stavo lì impalato al freddo, ma nemmeno lo sentivo un granché distratto dalle mie meditazioni… Ok, avevo intuito che c’era un dramma da risolvere ma… di che tipo? E come potevo rimediare? E potevo davvero farlo o la cosa andava al di là di me stesso? Poteva anche semplicemente volermi dire che si era stufata. Il pensiero mi balenò in testa, ma con un’epsressione corrucciata lo ricacciai via. Eppure seriamente non sapevo cosa aspettarmi. Proprio per tutta quell’etica di cui parlavo prima e che penso mi contraddistingua anche nei fatti, non sapevo di aver fatto nulla di male. Non a lei… non gliel’avrei mai fatto.
Finalmente sentii il gracchiare del citofono e un battito di ciglia dopo percepii anche la sua voce: mi invitava a salire, ma nessun’accenno di gioia o entusiasmo o ansia o qualsivoglia sentimento ricopriva il suo timbro… Era apatico. Privo di sentimento… Possibile? Dire che ci rimasi male forse non esprime e tuttavia, dentro di me se non altro,mi dicevo che andava tutto bene e che erano solo miei viaggioni: sarei salito e uscito dall’ascensore avrei incontrato i suoi occhi neri e intensissimi… E un secondo dopo l’avrei stretta tra le mie braccia, solo per me.
Sì, sarebbe sicuramente andata così la situazione. Strinsi appena le labbra e sospirai per distendere l’attesa e la tensione, mentre mettevo piede in ascensore. Mi specchiavo nello specchio e l’immagine che mi tornava indietro mi sembrava così goffa e distante… Insomma, di solito mi ritengo un bel ragazzo, eppure in quel momento c’era quella nota di preoccupazione che mi sviliva e si percepiva. Dovevo solo vedere lei e tutto sarebbe migliorato, lo sapevo, perché era sempre stato così. Anche quando mi aveva poi dato buca. Anche e persino quando mi era toccato andare a supplicarla e a chiederle scusa, dando un gran calcio in mezzo alle gambe al mio orgoglio.
L’ascensore si fermo e io en spinsi la porta voltandomi subito a destra per incontrare la sua figura: ed ecco. Niente.
O meglio… Nessuno.
Mi bloccai per un istante lì di fronte all’ascensore. Quasi idiotisticamente mi guardai intorno nel pianerottolo, come se potesse nascondermi per farmi uno scherzo, ma … ovviamente nulla.
Mi sentivo leggermente preoccupato. Deglutii rumorosamente e l’istante dopo sospirando mi dissi di fare un passo dentro la soglia di casa sua. E lo feci.
Misi dentro un piede poi l’altro, avanzando in silenzio, guardandomi intorno e allora la vidi, lì ferma sul divano. Seduta, ma non guardava verso di me. Sapeva che ero entrato, doveva avermi sentito per forza, ma la sua era una volontaria decisione. Che era successo? Continuavo a ripetermi questa domanda, ma sinceramente non trovavo alcuna possibile risposta.
Chiusi la porta e mi dissi che –almeno io- forse dovevo agire comunemente.
”Ciao Ellie. Come stai? Ti…senti poco bene?” buttai lì, supponendo fosse il modo migliore per rompere l’iceberg che ci separava e procedendo poi subito dopo anima e corpo verso di lei e il divano. Ero in prossimità quando feci per chinarmi verso di lei nonostante tutto… Lei rimaneva in silenzio ma... Hey tornai a dire chinandomi ancora un po'.Volevo baciarla, molto semplicemente… Era la mia Ellie, no?
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In un primo momento ero scivolata a sedere senza troppi complimenti, finendo per stravaccarmi, come mio solito. Quella posizione, però, invece di aiutarmi e rilassarmi mi mise ancora più in ansia. Era inutile che fingessi normalità. Era inutile che tentassi di comportarmi come se nulla fosse. Non c'era un cazzo di comune in quella situazione, e, anzi, cercare di adagiarmi sugli allori sarebbe stata solo una gran idiozia. Così, con un gran sospiro -o forse era ancora un mezzo singhiozzo, sebbene mi fossi imposta di smetterla di piagnucolare- mi raddrizzai, finendo invece a sedere con fare totalmente impettito, sulla riva del divano. Mi sentivo sporca, in prestito... ecco, questo era molto più giusto. Così dovevo sentirmi. In colpa. Dopotutto, stavolta, l'avevo davvero combinata grossa. Che fosse una sorta di punizione, dopo una vita da saccente nei confronti di chiunque? Avevo fatto la morale a chiunque così tante volte che adesso... tutto si rovesciava addosso alla sottoscritta. Ottima spiegazione, se credessi nel fato o in una qualche divinità superiore. Semplicemente, potevo additare tutto questo come sfiga. Oppure, d'accordo, come sciocca negligenza da parte mia. O nostra, certo.
Altro punto dolente. Non sapevo come sentirmi, nei confronti di Mark. Non ero nemmeno del tutto certa di volerlo vedere. Erano giorni che soffusamente lo evitavo; sperai non se ne fosse accorto, dato che, comunque, ero stata ben attenta a non farmi beccare. Certo, con il messaggio di poco prima, o anche solo nel modo in cui avevo risposto al citofono, avevo lasciato trapelare qualcosa. Non che fosse voluta, quella totale apatia. Eppure regnava sovrana nei miei pensieri, impedendomi di agire in modo più... passionale? Bella battuta, questa, non c'è che dire. Quell'agire in modo tanto sconsiderato era stato la causa di tutto. Volevo forse che tornasse? Va bene che le cose non potevano peggiorare, però...
D'accordo, il punto è che avevo paura. Non solo per la cosa in sé, ma, nell'immediato, per la sua comparsa. Non sapevo come comportarmi, cosa fare, anche solo cosa pensare. Se, da una parte, la mia prima reazione, ne ero sicura, sarebbe stata quella di prenderlo a pugni, d'altro canto sapevo che rifugiarsi tra le sue braccia mi avrebbe fatta sentire subito meglio... tuttavia questa seconda opzione era da escludere a priori. Mai mi sarei mostrata così debole, anche solo per dar man forte al mio povero orgoglio ormai troppo calpestato. Non dico che lui ne abusasse, naturalmente no... la colpa era mia, in realtà. Mia, sì, perché mi ero lasciata -e mi lasciavo- trasportare da quello che sentivo, rovinando sempre ogni cosa. O meglio, diciamo che persino nella mia ottica, in realtà, le cose stavano così. Non che mi fossi rassegnata, perché non si può parlare di questo... diciamo che mi sentivo bene. Mi sentivo tanto, troppo bene, per prestare ancora attenzione a tutti quei particolari inquietanti che mi circondavano. Era stata una lenta discesa, della quale, però, ben presto avevo cominciato a disinteressarmi. Che male c'era se con lui tutto diventava imprevedibile? Che male c'era se invece di Eloise saltava fuori... Ellie?
Sussultai, invece, quando sentii il rumore dell'ascensore che scattava. Questione di pochi attimi, poi non sarei più potuta tornare indietro. E dire che ci avevo persino pensato... strinsi le labbra in una smorfia infastidita, mentre lo stomaco si contraeva probabilmente dal terrore. Era strano, però. Perché non c'era il rumore del suoi passi? Era come se... si fosse fermato, sì. Non riuscii a resistere e mi girai, per qualche istante, cercando di individuarlo. Doveva ancora essere dall'ascensore però, dato che non riuscii a scorgerlo. Dannazione, cosa volevo allora? Non riuscivo a decidermi. La voglia di fuggire, che ormai sembrava essere diventata la costante della mia vita, era sempre presente. Come fare, però? Non potevo scappare da quella situazione, sia da un punto di vista teorico che... pratico. Io l'avevo chiamato, mica potevo tirarmi indietro...! E poi... davvero non volevo vederlo? O comunque, davvero volevo semplicemente sbraitargli addosso e prendermela con lui? Sicuramente c'erano anche queste componenti, ma... non si riduceva tutto a questo. Sapevo di aver bisogno del suo conforto, del suo appoggio, della sua... opinione. Ecco, forse il problema più grande era questo. Non potevo privarmi del suo giudizio. Non sarebbe stato giusto. Non per una come me, almeno.
Finalmente, se vogliamo vederla così, tornai a percepire qualcosa. Si stava avvicinando e... mi imposi di stare girata, lasciando vagare lo sguardo per il salotto. Non volevo incontrare i suoi occhi. Sapevo che a quel punto non sarei riuscita a resistere, quindi... era meglio rimandare la cosa. Doveva essermi fermato di nuovo, però, anche se quasi mi parve di sentirlo respirare, mestamente, sul ciglio della porta. Il cigolio che quest'ultima emise, chiudendosi, mi fece torcere lo stomaco per l'ennesima volta, mentre stringevo gli occhi infastidita.
Il peggio, però, doveva ancora venire. Certo, continuavo a restare convinta di dover avere paura, prima di tutto, del suo sguardo, ma anche la sua voce mi fece un certo effetto. Non potevo e non volevo vederlo, ma, comunque, il tono era ben percepibile. Calmo, lento... quasi a volermi comunicare che lì, almeno lui, era tranquillo. Una parte di me lo ringraziò per questo, mentre il resto si ritrovò quasi ferito da questa constatazione. Mi credeva così... fragile? Anche solo formulare un pensiero del genere mi era difficile, pur sapendo che, in quegli ultimi momenti, non avevo fatto che dimostrarmi tale, a me stessa.
Forse ero troppo presa dai miei pensieri, forse non volevo farlo, ma... mi ritrovai, parecchi istanti dopo, ancora in silenzio, immobile nella posizione che avevo assunto alcuni minuti prima, dopo essermi raddrizzata, in punta al divano. I miei occhi continuavano a spostarsi pigramente, o almeno, cercando di sembrare tali, per la stanza, senza però spostarsi verso destra, dove lo sentivo avvicinarsi. Avrei voluto urlare, in realtà, fare di tutto pur di non mostrarmi calma, non essendolo affatto, ma, naturalmente, tutto ciò che riuscii a fare fu esattamente l'opposto. Continuai a starmene lì, appollaiata, senza dire o fare nulla, immobile come una statua di gesso. Ero sicura che anche solo il minimo colpo avrebbe potuto spezzarmi, ma non l'avrei ammesso mai e poi mai.
Sebbene fosse stata una cosa graduale, misurata anche dai battiti sempre più accelerati ed agitati del mio cuore, ritrovare Mark lì, così vicino, mi fece quasi impazzire. Era entrato delicatamente nel mio campo visivo, sebbene mi sforzassi di non guardarlo. O almeno, per qualche secondo cercai ancora di fare così, ma, ben presto, dovetti arrendermi. Incontrare i suoi occhi fu, se vogliamo, ancora più difficile di come avevo immaginato. Mi scrutavano preoccupati e pensosi, probabilmente non riuscendo a capire cosa avessi mai. Per qualche istante rischiai persino di buttargli le braccia al collo e riprendere a singhiozzare, ma per fortuna l'orgoglio ebbe la meglio. E poi... il suo viso era lì, a pochi centimetri dal mio... potevo sentire il suo respiro... no, non dovevo farmi distrarre da questi particolari. Lo guardai ancora, non riuscendo a non nascondere tutta la confusione che sentivo dentro ma poi, qualche attimo dopo, mi scostai in fretta da lui, appoggiando la schiena contro lo schienale.
“Sì... non sto bene.” mormorai, stancamente, cercando però di assumere un tono neutro e quasi distaccato. Gli feci appena cenno di sedersi, prendendomi qualche istante per osservarlo. Dannazione... e adesso? Da dove dovevo partire? Cosa...? Mi accorsi di avere il foglio tra le mani, ancora. Presi appena a torturarlo, senza però staccare gli occhi da Mark. “Io... è successo qualcosa, ecco. Qualcosa da cui non posso, non voglio... escluderti.” cominciai, cercando una calma, che, in realtà, in quel momento non avevo affatto; quasi inconsciamente, intanto, lanciai un'altra occhiata al foglio che stringevo convulsamente tra le dita, per poi lasciarlo scivolare nella sua direzione, in modo che lo prendesse. Non era una mancanza di coraggio, la mia. Volevo solo che, non lo so... se ne rendesse conto da solo, così come anche io avevo dovuto fare?
Capita a volte di sentirsi per un minuto felici. Non fatevi cogliere dal panico: è questione di un attimo e passa.
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Quel silenzio era preoccupante, per una semplicissima ragione: Ellie e silenzio non potevan coesistere! Ellie era sempre la chiacchierona della situazione da quando la conoscevo, se c’era un problema non era certo farla parlare, ma piuttosto farla tacere! Non che ovviamente provassi mai la voglia di zittirla: mi piaceva la sua voce, il che detto da me è paradossale. Ebbene sì, mi ero arrivato persino a far star simpatico quel maledetto accento yankee per colpa sua! Quello che a casa mia, in Inghilterra, mi divertivo sempre a deridere e da cui ora mi sentivo inevitabilmente attratto. Il problema con lei era anche questo: c’era qualcosa nella sua fiscalità che mi dava alla testa e mi faceva dimenticare persino quella prudenza che si dovrebbe addurre ai luoghi pubblici. Un esempio fra tutti? Beh, anche solo il famoso bacio sotto il vischio che avevo scoccato sulle sue labbra a Capodanno… ve l’ho detto, certo, in parte era voluto, ma in gran parte era anche merito del mio inconscio e subconscio. Qualcosa che mi trovo sempre a domandarmi è come prima riuscissi a reprimere tutte quelle pulsioni che ora mi risultavano connotate naturalmente. Come potevo seriamente non aver notato quanto fosse attraente, quanto le sue curve richiamassero costantemente la mia attenzione e quei suoi occhi profondi e grandi che parlavano… Sto diventando peggio di una donzella dite? Può darsi… ma d’altronde non mi sono mai piaciute le generalizzazioni! Dire che solo le ragazze sono sensibili è una gran puttanata. Abbiamo solo diversi modi di esprimerci credo.
In quel momento io vi assicuro che stavo davvero male dentro, ma qualcosa esternamente mi impediva di lasciar trapelare quella preoccupazione, quell’angoscia, come se una sorta di pressione mi respingesse indietro tutti i possibili sintomi.
Non era qualcosa nato esattamente in modo spontaneo: per quanto ne abbia memoria da ragazzo ero decisamente più incline alla dimostrazione delle mie emozioni, era solo crescendo che avevo imparato a dissimulare.
Mi ero divertito un sacco a sentire i suoi racconti su quanto detestasse quel mio sguardo che cercava sempre di restare calmo, ma come alla fine sono sicuro la colpisse anche. In quel momento in realtà lo sforzo richiestomi per rimanere impassibile era molto. Come dicevo prima c’era qualcosa di strano e distorto in quel suo silenzio che mi metteva in allarme. Spie vi erano già state dall’inizio: il messaggio così perentorio, il non accogliermi come sempre… Cazzate dite? Beh, non per me. Forse perché sono in inglese, adoro i riti. Il trovarla lì sorridente sulla porta pronta a esser avvinghiata da me era appunto uno di questi.
Era come se avesse voluto mettere una sorta di palo tra noi, spezzare quella routine che ci contraddistingueva. Quello che ora mi continuavo a chiedere in modo spasmodico nella mente era appunto cosa stesse provocando tutto questo.
Eppure i motivi di delusione e preoccupazione non avevano ancora avuto fine probabilmente, perché non appena feci per avvicinarmi a lei si discostò… perché? Perché lei si stava discostando da un mio semplice bacio? Che altro era in fondo se non un gesto d’affetto, una dimostrazione di quello che comunque ci legava? Non era mai stato detto apertamente, ma era chiaro che stessimo… insieme. E lo ammetto senza timore, come accennato prima, anche la componente fisica ci univa. Non lo vedo affatto come qualcosa di negativo e brutale, però. Piuttosto direi che la sintonia e l’armonia tra noi si declinava anche in tal senso, il ché era solo un plus.
Non appena la vidi distaccarsi in quel modo, rifuggendo indietro con le spalle allo schienale in quello che mi parve quasi un moto difensivo mi ritrassi a mia volta indietro, un vago senso di tristezza negli occhi.
C’ero rimasto male, sempre di più. Che le succedeva? Perché non mi dava risposte? Non mi aveva forse invitato lì per parlarmi? Quale altro scopo ci sarebbe stato? Poteva anche non parlarmi forse se voleva, ma almeno in tal caso avrebbe dovuto accettare di avermi vicino… Così rifiutava entrambi i livelli di comunicazione, facendo sentire me in balia di strane forze esterne che mi isolavano, rigettandomi indietro.
Pochi secondi dopo però si decise finalmente a parlare: l’ennesima affermazione gelida e indifferente. Ecco questo se volete era tipico mio, non suo. E per questo avrei dovuto ancora preoccuparmi. Se Ellie agiva così c’era da star sicuri che prima o poi nel bene o nel male sarebbe esplosa.
Era qualcosa più forte di lei e ormai credevo di conoscerla a sufficienza per poterlo dire.
Mi indicò di sedermi al suo fianco e con un piccolo cenno affermativo seguii la sua direzione. Sedetti, stesso divano, vicino abbastanza da non sembrare scostante, ma nemmeno troppo per non essere oppressivo. Forse era la prima volta che gli studi di prossemica di giurisprudenza mi tornavano utili. Del resto è vero: l’idea che volevo comunicarle era che ero lì per lei e disposto a aiutarla ma solo se lei l’avesse voluto, senza impormi insomma.
Rimasi lì in attesa, la testa leggermente inclinata per cercare il suo sguardo eh era chino verso il basso e d’altro canto un’espressione interrogativa in viso.
D’altra parte non potevo fare a meno che raggelare: non stava bene… Aveva detto esattamente così… E se fosse stato qualcosa di grave? Insomma, se la questione non fosse stata del tutto sul piano psicologico ma piuttosto su quello fisico? La cosa aveva decisamente senso, considerando che ragioni sociali non ne trovavo. Non avevamo mai discusso, né potevo credere che tutto d’un tratto lei si fosse semplicemente rotta di noi due.
Finalmente alzò gli occhi su di me e io gli piantai i miei dritti in viso, domandandole anche solo con lo sguardo di continuare… per favore.
Fu allora che notai quel foglio di carta che stringeva spasmodicamente tra le dita. Riattirai però l’attenzione su di lei quando sentii la prima parola che le usciva dalle labbra.
”Qualcosa da cui non posso, non voglio... escluderti.”. Perché doveva esser così sibillina, mentre il mio cuore dentro stava morendo? Che le succedeva? Che dovevo temere? Che… finalmente vidi quel foglio scivolarle tra le dita nella mia direzione. La guardai ancora una volta con fare interrogativo: volevo solo avere la conferma che avesse davvero scelto di darmelo lei e non che le fosse scivolato per sbaglio. Se avesse voluto la sua privacy non potevo certo violarla.
Eppure sembrava proprio che fosse lei a volermi concedere la visione di ciò che conteneva, la risposta a tutte quelle domande che mi ronzavano in testa da quando avevo messo piede lì dentro.
Raccolsi il foglio, mezzo accartocciato e lo aprii cominciando a scrutarlo: l’impatto mi fece subito sobbalzare… Analisi mediche. Era allora davvero come temevo? C’era davvero qualcosa che aveva scoperto sul suo stato di salute? Ma cosa? Cosa? Io non ero certo un medico e per quanto stessi scorrendo interessato tutti quei valori, essi non mi dicevano niente.
Non sapevo come dirglielo ma alla fine dovetti arrendermi… ”Ellie che significa? Io… non capisco… non so cosa significa insomma… che c’è? Che cosa hai scoperto?” la interrogai tenendo un tono di voce morbido ma allo stesso tempo preoccupato. Che avrei fatto se avessi dovuto anche solo rischiare di perderla? Non so… Al momento non avrei saputo immaginarlo.
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Il mio stesso comportamento mi stupiva. Pensandoci a priori, davvero non riuscivo a capire come potessi essere tanto... calma. O meglio, in realtà questo era solo quello di cui volevo convincermi. Calma non lo ero affatto; avevo tentato in tutti i modi di costruirmi una barriera intorno, per fare in modo che non tornasse a capitare come poco prima. Il problema è che per un nonnulla sentivo nuovamente quelle lacrime calde e brucianti risalirmi agli occhi, pronte a mostrare in modo prepotente la loro odiosa e sciocca presenza. Io non piangevo, non dovevo piangere neanche per cose del genere. Non è una stupidaggine, bensì una regola di vita. E poi scoppiare per l'ennesima volta in lacrime davanti a lui... no, non se ne parlava nemmeno. Stavolta nessuna canzone avrebbe retto, probabilmente. Sebbene una parte di me anelasse anche solo un suo abbraccio, convinta che la cosa potesse distrarmi, sapevo che nulla sarebbe servito. Le possibilità si restringevano sempre di più, così come quella corazza che pensavo potesse proteggermi e, invece, adesso mi soffocava. Mi sentivo accerchiata, accerchiata ed impotente. Non c'erano vie di fuga, non c'era nemmeno un barlume di... speranza.
Eppure, quando infine mi costrinsi ad alzare gli alla ricerca dei suoi, qualcosa sobbalzò, dentro di me, cominciando a ripetere, che, invece, una via di salvezza doveva ancora esserci. Naturalmente la cosa era del tutto assurda, ma, effettivamente, guardarlo provocava in me effetti opposti. Se, da una parte, mi sentivo appena rinvigorita, finendo, al solito, per perdermi in quegli occhi, dall'altra non riuscii a non provare timore. Quasi non avevo nemmeno fatto in tempo ad alzare del tutto il mio, di sguardo, che già il suo mi stava fissando. Non ci avrebbe messo molto per capire che qualcosa non andava, per... cominciare ad indagare. In fondo era una costante che mi sentissi così nei suoi confronti. I suoi occhi erano dannatamente in grado di sondarmi da cima a fondo, di capire, forse, cose di me che nemmeno io riuscivo, o probabilmente volevo, comprendere. Non era però questo quello che volevo? Non desideravo forse che... capisse, appunto? O meglio, forse sarebbe più appropriato parlare di sapere... niente da fare, ero troppo confusa anche solo per decidermi su stupidi dubbi del genere.
Non sapere come sentirmi nei suoi confronti, o forse non riuscire a capirlo, probabilmente sarebbe diventata una mia constante, dato che, tanto per cambiare, ci ero ricaduta. Per l'ennesima volta ero in bilico tra rabbia e tristezza, tra frustrazione e semplice voglia di nascondermi. Sebbene non l'avrei ammesso mai e poi mai, una parte di me voleva ed aveva bisogno di essere consolata. E' vero, odio queste cose con tutte me stessa, ma, alle volte, finisco per avere pulsioni del tutto opposte. Forse, chissà, vale davvero la stupida e generalizzante regola dei poli opposti. Sono così tanto contro una cosa che, di tanto in tanto, desidero andarle totalmente vicino. Insomma, forse la sto facendo troppo complicata, ma il punto vuole essere che, pur odiando essere fragile, in stile 'donzella in difficoltà', non potevo negare, non nella mia testa almeno, di volere davvero essere aiutata, almeno un pochino. Il mio orgoglio non me l'avrebbe fatto comunque ammettere in nessun caso, anche perché era sostenuto da tutta l'altra parte del mio cervello, che invece cominciava a scaldarsi e a guardarlo male.
Però, più lo guardavo più non riuscivo a sentirmi davvero arrabbiata. Quando ormai mi ero fatta indietro, stizzita, e l'avevo appena guardato con la coda dell'occhio, mi aveva fatto male scorgere quell'espressione angosciata nei suoi occhi. Che ci fosse qualcosa di strano l'avrebbe capito anche un muro, quindi... probabilmente voleva solo ricercare un po' di normalità, almeno lui. Una piccola, microscopica parte della mia mente mi diceva che, in effetti, ero sempre io quella a creare problemi. Ero sempre io quella che se la prendeva per tutto, che imprecava, che si arrabbiava... Mark subiva ogni mia schizofrenia, e, non si sa come o perché, era ancora lì. Mi rabbuiai ancora di più, a quel pensiero, non potendo fare a meno di pensare che non sarebbe stato così ancora per molto. Era ancora lì, avevo appena formulato... ma dopo cosa sarebbe successo?
Se lui aveva quell'espressione da cane bastonato, io che faccia dovevo avere? … Meglio non pensarci, forse, sebbene fossi convinta di avere ancora un che di imperturbabile. Erano passati sì e no una manciata di minuti, però, da quando ero corsa in bagno e, dopo aver rimesso per l'ennesima volta, avevo osservato quella sorta di spettro nello specchio. Sperai che almeno gli occhi non fossero tanto pesi, dato che ormai non potevo più nascondermi sfuggendo al suo sguardo. Pulsioni opposte ed odiosamente contrapposte non facevano che scontrarsi, nel mio cervello, mentre ancora, praticamente, non gli avevo detto nulla. Non era forse stata una mia idea? Dove era finita tutta la mia voglia di parlare, in ogni dannatissima situazione? … D'accordo, probabilmente era inutile che tentassi di convincermi che, per quanto assurda e strana, anche questa situazione poteva essere ricondotta a qualcosa di normale. Non c'era più nulla di normale, a partire da me stessa.
Solo per un istante, guardandolo, mi persi ad osservarlo con una punta di malinconica dolcezza, pensando, appunto, a come avrei fatto ad abituarmi a stare senza di lui. Era un dato di fatto, o quasi, che qualunque cosa sarebbe successa ci saremmo allontanati. Una parte della mia testa l'aveva già messo in conto, mentre tutto il resto continuava a non volerlo accettare. Neanche fossi stata in punto di morte, non riuscii a non ricordare tutte le occasioni, in cui, in fondo, mi ero sentita felice, con lui al mio fianco. Lo so, è una cosa stupida ed infantile, ma non posso negarlo. Per certi versi mi aveva davvero stravolto l'esistenza, tirando fuori una parte di me che persino io faticavo a riconoscere. Però, oggettivamente, se lasciavo che la mia mente corresse a ripescare tutte le situazioni vissute fianco e fianco... una sottile e pungente tenerezza mi assaliva, neanche fossero stati ricordi lontani ed irripetibili. No, aspettate, su quest'ultimo punto in effetti potrei avere da ridire, data la mia teoria... avevo idealizzato tutto, naturalmente, ma questo l'avevo già messo conto da parecchio tempo, dato che già me n'ero resa conto la prima volta in cui, finalmente, l'avevo baciato. Ma andava bene. Mi era sempre andata bene così. L'effetto che Mark provocava su di me era qualcosa di dannatamente inspiegabile e strano e, adesso, non potevo fare a meno di chiedermi come sarebbe stato... rimpiangerlo.
Ben presto mi ridestai da quella sorta di trance, sbattendo ancora più forte contro quella che invece era la realtà. Era inutile che cercassi di sfuggirvi con quei sotterfugi dolci ed amari insieme... dovevo accettarlo e basta. Presto, oltretutto, anche lui avrebbe fatto lo stesso. Infatti, in uno di quelli che sarebbero stati gli ultimi gesti di calcolata insensibilità gli avevo passato il foglio, aspettando che scoprisse a sua volta la verità. Non staccai gli occhi dal suo viso nemmeno per un istante, mentre leggeva. I suoi occhi correvano in fretta sul foglio, assumendo sempre di più un'espressione... stupita. Inizialmente non collegai, o meglio, forse non volli nemmeno collegare. Possibile che fosse solo frutto della sua solita, maledetta atarassia? Non potevo davvero crederci, però.
Fu solo quando tornai ad incontrare davvero il suo sguardo, e quindi scorsi quella confusione che non potevo fraintendere, che lentamente il dubbio si insinuò in me. Ma il culmine fu quella domanda. Una domanda più che lecita, probabilmente, posta con tutto il garbo e gentilezza di cui solo lui era capace, cosa che invece a me mancava di certo, che però subito mi diede alla testa. Insomma, osava anche chiederlo? Stavamo forse scherzando?
“Cosa... cosa ho scoperto?!” mi ritrovai a ripetere, sicuramente con voce un po' isterica. Oh, ma quello era solo l'inizio...! Come avevo fatto a restare così calma ed impassibile, fino a quel momento? Che cosa mi era passato per la testa? Adesso... adesso la sentivo davvero, la frustrazione. Non volevo neanche prendere in esame il fatto che, forse, la cosa era solo un modo per nascondere la mia immensa paura. Senza troppi complimenti, con sguardo infervorato, mi sporsi nella sua direzione e gli strappai il foglio di mano. Cercai di non prestare attenzione alle mie, di mani, dato che, mentre gli sventolavo davanti quel pezzo di carta, tremavano come foglie. “Vedi questo?” ricominciai acidamente, indicando esattamente quella voce. “Sai cosa vuol dire?”
Mi fermai, un po' per riprendere fiato, un po' perché, oltre alle mani, adesso sentivo anche le labbra tremarmi, sebbene le avessi preventivamente serrate in una smorfia scocciata ed irata. No, niente lacrime, niente di niente! L'unica cosa lecita, in quel momento, l'unica cosa che potevo davvero permettermi di fare era essere furente nei miei ma sopratutto nei suoi confronti. Non stavo scaricando tutta la colpa su di lui, ma... non potevo nemmeno prendermela solo con me stessa!
Strinsi forse i denti, quindi, cercando di controllarmi, tornando a piantargli gli occhi in faccia, stavolta con pungente ma delirante sicurezza. Fu questione di un attimo, un attimo al contempo brevissimo ma infinitamente lungo. La mia stessa voce mi arrivò alle orecchie quasi distorta, tanto tagliente ed incrinata era. “Sono incinta, Mark. Sono fottutamente incinta!”
Capita a volte di sentirsi per un minuto felici. Non fatevi cogliere dal panico: è questione di un attimo e passa.
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Perché avevo come la sensazione di essere appeso ad un filo? Perché sentivo che qualunque cosa stesse per uscire dalle labbra di lei, qualsiasi avvenimento stesse per colpirmi, comunque le cose non avrebbero potuto che peggiorare? Quei silenzi, già notati sin dal mio ingresso, quegli occhi che per quanto si sforzasse continuavano a mostrare i residui di un pianto, nemmeno tanto lontano… Anche il fatto che stesse evitando compulsivamente il mio sguardo, come faceva solo quando si trovava in difficoltà.
Il problema era che stavolta io mi sentivo in difficoltà quanto lei, perché in un certo senso ero convinto che il nostro legame avrebbe condotto me con lei nell’abisso, qualsiasi questo abisso fosse e rappresentasse. Il fatto era che anche se la cosa avesse riguardato davvero solo lei o anche solo un rappresentante della sua amiglia, una figura della sua vita… se lei soffriva, io avrei dovuto –o meglio- non avrei potuto evitare di soffrirne a mia volta, anzi quasi duplicemente. Sì perché avrei sentito non solo il dolore medesimo che provava lei, riuscendo a coglierne tutta l’empatia, ma anche il mio nel vedere delle lacrime rigare il suo volto.
E questa rimaneva comunque la migliore delle ipotesi… Delle analisi mediche: che sarebbe successo a me se avessi scoperto che addirittura era lei quella irrimediabilmente malata? Strinsi appena la mano a pugno per confortarmi da quell’idea… Davanti a me passavano le idee più diverse e disparate. In un attimo me la immaginavo spegnersi lentamente in un lento ed inesorabile declino, proprio lei che era il ritratto della vitalità, quello dopo invece… per quanto cercassi di reprimere qualsiasi immagine… la vedeva stesa tutto d’un colpo.
Non sono macabro e non voglio farlo, ma che cazzo potreste aspettarvi quando una persona vi mette in mano un foglio medico in quel modo? Insomma, di certo non vuole annunciarti di avere il colesterolo un po’ fuori la norma, no?
No, c’era qualcosa di spaventoso e ormai si era insinuato in lei, in noi ed io non ero solo ancora conscio del tutto.
La guardavo pregandola di darmi una risposta, di sollevarmi almeno dal beneficio del dubbio che ormai cominciava a farmi impazzire: sono fatto così… preferisco mille verità ad una mera menzogna. Preferisco la verità, per quanto dolorosa possa essere su qualsiasi altra cosa, perché almeno non ti senti ingannato… Mi era bastato esser protetto da ragazzo: ”Tuo padre è solo stanco a letto, Mark”… e la stessa sera l’avevo visto picchiare mia madre per non aver comprato l’ennesima fottuta bottiglia. Detesto quando la gente pensa di poter fare il mio bene. Lo scelgo io che cosa è bene per me. Ed una volta che uno è in mezzo a qualcosa, per quanto questa possa sembrare più grande di lui, deve affrontarla, non è così?
D’un tratto tuttavia vidi l’espressione di Eloise mutare: non era più addolorata, abbattuta… era come raggelata, sconvolta, arrabbiata. Ecco, era piena di ira e la cosa si percepiva da tutti i suoi pori per quanto dietro continuasse a celarsi paura.
Fu tutta un escalation la sua, di cui non riuscirei a ricordare quasi una parola, dato il casino e la confusione che mi annebbiarono la mente poco dopo.
Ricordo solo i suoi occhi, così intensamente presenti mentre pronunciavano quella sentenza che avrebbe cambiato la mia vita.
“Sono incinta, Mark. Sono fottutamente incinta!” .
Silenzio. D’un tratto si impossessò della stanza, del palazzo, persino di tutta New York: non sentivo nulla. Nulla. Non riuscivo nemmeno a realizzare un pensiero simile. Come…CosaLei? … Noi? Mi sentii venir meno in tutte le mie forze per un attimo, mentre la schiena crollava all’indietro verso lo schienale del divano, le mani si aprivano appena dai pugni in cui erano stretti e le labbra si dischiudevano cercando un respiro e quell’aria che non entrava più. Mi sentii oppresso, schiacciato, annientato, come se un macigno mi fosse crollato sul capo. Forse sarebbe stato meglio… Noi due… Come poteva essere accaduto? Quando? E soprattutto, perché, cazzo, a noi? Guardavo il vuoto, non riuscivo a incontrare i suoi occhi, i suoi occhi che –lo sentivo- mi stavano accusando in ogni viscera del mio essere. Ma lo meritavo forse? Meritavo forse che mi fosse data la colpa di tutto questo?
D’un tratto un lieve sorriso mi si dipinse sul volto, più nervoso che altro, finché con voce ironica dissi: ”No… no, non è possibile…” e poi, continuando a fissare il tappeto per terra, lì nel vuoto davanti a me, aggiunsi non potendo fare a meno di alzare la voce: ”Sono sempre stato attento… Siamo sempre stati fottutamente attenti! ” Fu nel momento stesso in cui pronunciavo ad alta voce quelle parole, mentre il mio cervello elaborava immagini sconnesse che ebbi un flash immediato. La nostra prima volta insieme. Quella sera… era stato tutto così spontaneo e immediato… Non avevo usato nulla in quell’occasione ma… Come poteva esser stata tanto sciocca da agire così, sapendo di non prender precauzioni lei stessa? Non l’aveva fatto… non sarebbe stato da Ellie, non poteva esser così e l’errore era nelle analisi, in quelle analisi che avrei volentieri bruciato e…
”Ellie…” parlavo lentamente scandendo ogni parola gelidamente e cosparso da panico e rabbia in tutto il corpo ”Dimmi che hai sempre preso qualcosa… Dimmi che non hai fatto la cazzata di buttarti su di me senza prendere una cazzo di pillola, ti prego.”.
Di nuovo, finalmente, tornai a posare gli occhi su quelli di lei, teso come mai ero stato in vita mia. Davvero, ora, la mia esistenza era legata alla sua e appesa a quel filo… In modo paradossalmente diverso da come la mia mente però se l’era figurato. Non sapevo se era vero, non riuscivo nemmeno a concepire la realtà di un figlio e una parte di me sapeva o piuttosto sperava che fosse assurdo e impossibile che capitasse a me tra tutte le miriadi di ragazzi che lo facevano sempre con la prima che capitava, ma se lo fosse stato? Che cazzo avrei fatto della mia vita? Mi stava crollando addosso il mondo e ancora non l’avevo realizzato. Non ero un padre io. Non lo sarei stato. Semplicemente non potevo.
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La mia stessa voce continuava a rintronarmi nelle orecchie, ripetendo fino allo sfinimento quella parola. Pensarla era stato un conto, fino a quel punto, dato che comunque, al solito, avevo cercato di camuffarla in tutti i modi possibili ed inimmaginabili, facendomi paura. Ma adesso... adesso l'avevo detta ad alta voce e non c'era più via di scampo. Era come se qualcosa, nella mia testa, volesse farmi notare ancora ed ancora quant'ero stata idiota. In fondo me lo meritavo, però mi dava un tantino i brividi. Averlo sbraitato non cambiava le cose. Anzi, diciamo pure che adesso mi sentivo ancora peggio. Quasi a voler rimarcare quel concetto, il mio stomaco riprese a fare le capriole. Nulla a che vedere con le farfalle che mi attaccavano ogni volta che ero in compagnia di Mark. Quelle erano, o forse sarebbe più corretto dire che erano state piacevoli, in una qualche strana maniera. Queste... mi terrorizzavano. Completamente. Erano qualcosa di nuovo, di orribile, qualcosa che non volevo con tutta me stessa.
Per qualche istante mi domandai cosa avesse pensato Mark, prima di sapere, come se quel guardare la cosa da un'altra prospettiva, e oltretutto ancora inconsapevole, potesse aiutarmi a stornare da tutta quella situazione. Naturalmente era un modo di procedere idiotissimo, e me ne rendevo conto perfettamente, ma non riuscii a non impedirmi di non farlo. Solo per qualche momento ripensai alle sue espressioni di poco prima. Come sempre aveva tentato di nascondere tutto dietro quel suo fare atarassico, ma, chiaramente, non c'era riuscito molto bene stavolta. Ormai sapevo che il trucco era osservare i suoi occhi. Quelli non avrebbero mentito mai e poi mai. E, lo ammetto, mi piaceva pensare di essere arrivata ad un livello di conoscenza, con lui, da riuscire ad andare oltre a quella sua calma che all'inizio mi aveva fatto tanto incazzare. E' vero, faceva parte di lui, ma ormai sapevo benissimo che sotto c'era ben altro. Si nascondeva un animo molto più forte e passionale, da qualche parte, lì dentro. In condizioni normali, a questo punto, mi sarei ripresa pur di non sospirare con fare odiosamente sognante. Stavolta, invece, non ebbi nemmeno il tempo di fare considerazioni del genere. Tutto quel pensiero si era svolto in un battito di ciglia, nel mio sciocco tentativo di nascondermi da quello che avevo davanti e che, soprattutto, avevo appena detto.
L'ansia tornò ben presto a risalire, impedendomi quasi di respirare. Il suo sguardo da cucciolo ferito ed implorante di poco ancora mi balenava davanti agli occhi, ma non servì a nulla. La rabbia e l'impeto stridulo con cui gli avevo strappato il foglio di mano, esponendo finalmente la radice del problema erano lì e non potevo farci nulla. Dovevo semplicemente affrontarli, sempre che, certo, tutto questo possa essere definito semplice... non lo era affatto, e che cazzo! Quello era solo un grande, grosso, immenso casino dal quale non sapevo assolutamente come tirarmi fuori. Le uniche soluzioni erano così ovvie da infastidirmi, e, soprattutto, ero troppo terrorizzata per pensarci veramente.
Una piccola parte di me si ritrovò a guardarlo, aspettando impaziente la sua reazione. Per poco non si convinse che le sarebbe andata bene qualsiasi cosa, pur di vederlo smuoversi da quel... torpore. Definiamolo così, sebbene fosse qualcosa di ben diverso. Dicevo che la mia stessa voce ancora mi risuonava nelle orecchie, sia per il fatto di aver praticamente urlato, sia, naturalmente, per quello che avevo detto. E poi... era calato il silenzio. Un silenzio strano, carico di tensione, almeno da parte mia. Lo fissavo con la stessa rabbia e lo stesso furore di poco prima, mentre, appunto, una parte di me si aspettava che facesse o dicesse qualcosa. Quella stessa parte, piccola e sciocca com'era, voleva convincersi del fatto che, forse, insieme avremmo trovato una soluzione meno ovvia ed odiosa di quelle che saltavano in mente a me. Il resto della mia persona era del tutto restia alla cosa, un po' per orgoglio, probabilmente, un po' per quell'intontimento rabbioso che, in realtà, si era impossessato anche di me.
E allora? Allora? Perché diavolo non si muoveva? Stavo morendo di ansia e mi sentivo sempre più da schifo, mi sarei messa ad urlare fino a perdere la voce, se la cosa non mi fosse sembrata troppo infantile. Tuttavia il mio corpo prese a reagire come se, effettivamente, lo stessi facendo; anche perché nella mia testa quell'urlo così illusoriamente liberatorio era già cominciato, nel vano tentativo di spazzare via ogni altro pensiero. Ero ancora seduta così, sul ciglio del divano, con i piedi per terra, uniti, e le ginocchia una contro l'altra. O meglio, avrebbe dovuto essere così: in realtà mi tremavano tremendamente entrambe le gambe, così come mi tremavano le braccia, e la schiena, e qualsiasi parte prendessi in esame. Quel maledettissimo foglio era tornato tra le mie mani ed anch'esso si muoveva confusamente, provocando un lieve ma fastidiosissimo fruscio.
Probabilmente fu una questione di secondi, ma mi parvero davvero secoli. La testa mi girava e continuavo ad urlare, silenziosamente, senza staccare gli occhi da lui. Non c'era alcuna reazione. Niente di niente. L'avevo semplicemente visto lasciarsi cadere, all'indietro, con lo sguardo nel vuoto. E così era rimasto. Cazzo Mark, parla! cominciai a ripetermi, stringendo le labbra perché non ne uscisse alcun suono. Parla!
E poi, all'improvviso, comparve quel sorrisetto. Rabbrividii, all'istante, non capendo da dove mai comparisse. Non era un vero sorriso. Era tagliente, era fastidioso, era tremendamente... sarcastico. Per la prima volta riconobbi quella che doveva essere l'espressione che, spesso, riservavo agli altri. Altezzosa, acida e completamente sarcastica appunto. Una faccia da schiaffi, dato che già mi prudevano le mani. Ma era solo l'inizio. Prese a farneticare, dapprima a voce bassissima, davanti al mio sguardo del tutto allibito. Tremavo, sempre di più, non trovando nemmeno le parole per ribattere. Per quanto fosse ironico la cosa mi riempì nuovamente di rabbia. Per non parlare di quel primo sottolineare che lui era stato attento. “Lo so, cazzo, lo so!” sbottai acidamente, serrando di nuovo le labbra in una smorfia di ansia e di fastidio. Certo che eravamo sempre stati attenti! Non c'erano mai nemmeno stati problemi, fatta eccezione per...
i pensieri di entrambi erano caduti proprio lì. D'accordo, non ci voleva un genio, ma fu una cosa terribile. Nuovamente calò il silenzio, stavolta per un intervallo molto più breve. In fondo lo sapevo. Lo sapevo che quella da incolpare ero soprattutto io. Ammetterlo, però, era ben diverso dal sentirlo. Non l'avrei ammesso mai e poi chiaramente, e, anzi, l'avrei accusato fino alla fine. In un modo o nell'altro la colpa era comunque anche sua, sebbene ci fosse quel piccolo particolare che... no, non volevo nemmeno pensarci. Non dovevo farlo.
In una sorta di tragica ironia, però, i pensieri di Mark sfociarono nelle stesse, identiche considerazioni. Forse se l'avesse posta in modo diverso non avrei reagito così, ma, probabilmente, sarebbe comunque successo il finimondo. Già anche solo il tono con cui mi richiamò mi fece venire i brividi. Quel nomignolo che usava solo lui era sempre carico di qualcosa, ma mai l'avevo sentito tanto... macchinoso e freddo. Cercai di respirare, ma nuovamente l'aria mi si incastrò in gola. Annaspai, infuriata anche con me stessa, e tentai di riprendere fiato. Non servì a nulla, però, dato quello che aggiunse dopo pochi istanti.
“Buttarmi su di te?!” ripetei allibita, spalancando gli occhi in una gelida sorpresa. Non poteva averlo detto veramente! “E' così allora, giusto? Io! Sono stata io! Ho fatto tutto da sola, tu per poco non eri nemmeno lì! Io ti ho costretto a fare ogni cosa, io ti sono saltata addosso facendo di te quel che mi pareva...! Tu eri lì, povera vittima, a subire i miei soprusi!” buttai fuori tutto d'un fiato, cominciando ad attaccarlo un po' istericamente. “E, dato che la cosa era del tutto premeditata, avevo già cominciato da mesi ad assumere pasticche e quant'altro, giusto per stare sul sicuro! Il ragionamento non fa una piega!” aggiunsi sarcastica, finendo quasi ad urlare per l'indignazione. Se poco prima avevo quasi ammesso a me stessa di avere una buona responsabilità, in quello che era successo, adesso, dopo le sue parole, la cosa era stata del tutto spazzata via. “Sai cosa ti dico? Vaffanculo!”
Mi alzai in piedi, sempre più furente, completamente scossa da quei maledetti brividi. Si era pure deciso a guardarmi, finalmente, con quegli occhi tanto chiari ed espressivi da riuscire sempre a trafiggermi. Stavolta, poi, l'aveva fatto all'ennesima potenza, guardandomi malissimo. Va bene, era quello che avevo fatto anche io con lui fino a quel momento, ma... non riuscivo a sopportarlo. Ero in trappola e lo sapevo. Cercai di impormi di piantarla, di smetterla almeno di tremare ancora ed ancora, ma non ci riuscii in alcun modo. Mi sentivo debolissima e... quel voglio di merda era ancora lì. Ignorando i capogiri mi voltai, di scatto, e in preda alla rabbia lo feci a pezzi, proprio addosso a Mark, le labbra strette in una smorfia disperata che tentava in tutti i modi di celare le lacrime.
Capita a volte di sentirsi per un minuto felici. Non fatevi cogliere dal panico: è questione di un attimo e passa.
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Mi sentivo male. Seriamente, ero come oppresso da qualcosa di più grande di me, qualcosa che mi premeva forte forte contro al petto e mi impediva quasi di respirare in modo appropriato. Era la sensazione più assurda che avessi mai provato in tutta la mia vita e del resto era normale dato che non mi sarei mai aspettato uno scherzo simile da essa. Quello che più rendeva il tutto sovrannaturale era la spinta contraddittoria che sentivo nei confronti di Ellie; mi ritrovavo a fissarla e non potevo davvero più dire che cosa sentivo in quel momento. Suppongo che vederla lì mi avrebbe dovuto dare la forza di fare qualcosa, di agire e ragionare eppure, molto sinceramente, non ci riuscivo, era più forte di me! Mi sentivo del tutto sopraffatto e impotente di fronte a quella notizia tanto sconvolgente . Era come se non fossi nemmeno in grado di far chiarezza nella mia testa, come se il tutto fosse ancora ad un piano superficiale, quasi la cosa non riguardasse direttamente me, ma ne fossi sconvolto come se fosse successo a Richie o comunque a qualcuno a me vicino ma che non ero comunque io.
Qualcosa inconsciamente mi diceva soltanto che ero finito in un fottuto casino da cui non mi sarei mai più ripreso, intrappolato lì con lei. Il dramma in realtà era tutto celato lì in lei: la guardavo e davvero non riuscivo a capire che cosa sentivo. Un secondo sentivo di volerla stringere a me, sentivo quelle emozioni che mi avevano fatto vivere felice per tutto quel tempo, rievocate in me e percepivo il bisogno e la necessità di dirle che lei era tutto questo. L’istante successivo, d’altra parte, lo sguardo mi cadeva sulle sue mani che si muovevano freneticamente, su quegli occhi così irati e su quella pancia ancora così piatta che però presto non lo sarebbe più stata e mi scoprivo ad odiarla per quello che mi aveva fatto.
Era così, non potevo fare a meno di credere che fosse lei la responsabile, per quanto altrettanto involontaria. Era colpa sua se eravamo finiti in quel casino, colpa sua se ora non avremmo potuto più avere una vita normale da ragazzi.
E infine il nocciolo della questione mi raggiunse veramente, non più come una discussione di argomento generale e filosofico, ma come un problema che dovevo e potevo davvero fronteggiare io solamente.
Non era uno qualsiasi quello coinvolto: ero io, io ed io solo. Io col mio passato, io con il mio presente ed io con le mie prospettive di futuro. Ma dove sarebbe andato a finire tutto questo? Una cosa sola sarebbe rimasta immutata di sicuro ed era il mio passato… Forse, tra tutte e tre, l’unica cosa che avrei cambiato più volentieri a questo punto. Che ne sarebbe stato dei miei sogni, delle mie speranze o anche più semplicemente della basilare realtà di tirare avanti giorno per giorno con un lavoro se avessi dovuto mollare l’università per … quello? Per fare cosa poi? Finire a lavorare in un fast food tutta la vita, tornando a casa puzzando di hamburger e patatine fritte, buttando via quegli anni di sudore su quei libri schifosi, tutto per un essere che nessuno aveva chiesto? Tutto perché qualcuno aveva deciso questo al nostro posto? Qualcuno che nemmeno sapevo se esisteva, lassù fra le nubi e che ora stavo detestando con tutto il mio essere? Dov’era l’equità? Dove la giustizia divina? Dove si celava quella tanto acclamata ripartizione tra tutti, se gente che lo avrebbe meritato non veniva mai toccata da alcuna sfiga e altri invece lo erano sempre? Non lo so, cosa avrei dovuto pensare? Che era segno che quell’affidamento era ben riposto? Beh, si era di certo sbagliato, perché io non ero pronto! Anche pensandoci solo un secondo razionalmente, come potevo io essere un buon padre se non ne avevo mai nemmeno avuto uno? Come potevo sapere come relazionarmi e interagire con un figlio? Come potevo sperare di dargli quella vita che ogni bambino dovrebbe meritare, se non avessi avuto niente con cui nutrirlo?
Qualcosa nella testa mi urlava che era tutto una grande stronzata, che era tutto un brutto sogno, che dovevo solo sforzarmi di svegliarmi! Credetemi, per un istante provai davvero il desiderio di ferirmi sperando di uscire da quell’incubo, ma poi mi fermai e ritornai a concentrarmi sui miei pensieri… possibilmente meno masochisti.
Tuttavia, per quanto cercassi una via di fuga, un escamotage, non c’era niente che mi facesse uscire dalla semplice verità che la mia vita finiva quel giorno.
Avrei deluso tutti… Mia madre, i miei nonni, qualunque persona che aveva investito sul mio futuro e tutto questo per non aver saputo trattenere gli ormoni a dovere.
Avevo voluto fare lo stronzo e ora ne subivo le conseguenze… O meglio, ancora continuavo a credere che la colpa fosse più sua che mia… E ancora… Che cavolo pensava lei? Che fosse sconvolta e arrabbiata era naturale ma… non aveva accennato un istante a cosa davvero le passasse per la testa e lei, avendo avuto più tempo di somatizzare la cosa, avrebbe dovuto assumere il ruolo di conduzione della conversazione. Invece no, non aveva fatto nemmeno quello, sbattendomi duramente in faccia e senza alcun preavviso quella verità agghiacciante ed ero divorandomi con lo sguardo e urlandomi addosso come se il responsabile fossi davvero io! Assurdo!
Lo ammetto: forse nemmeno io ero del tutto in me e mi espressi malamente… ma lei sicuramente volle leggere nelle mie parole una malizia che non apparteneva loro.
Non solo mi dovetti sentir dare dell’ingenuo, del coglione e ancor più implicitamente di chissà che altro, ma mi dovevo pure beccare quel vaffanculo? Stava davvero scherzando o diceva sul serio? Il fatto che poi si alzasse voltandomi le spalle fu il colpo di grazia.
La afferrai per un polso e costringendola a voltarsi cominciai a risponderle a mia volta, totalmente infervorato in quella corsa allo scaricabarile della colpa:”Tu non mi mandi a fanculo, ok? Non ora. Siamo in due in questo cazzo di casino, te ne rendi conto principessina o credi sempre che tutto riguardi sempre e solo te?! E sai una cosa… è davvero curioso, perché per quanto tu creda di essere la sfigata della situazione non lo sei! Non sei tu quella fregata! Tu hai una famiglia, soldi, puoi far quello che vuoi! Quello fottuto qui sarò io e tutto per una cazzo di notte!”.
Rilasciai la presa dal suo polso e mi ritrovai quasi col fiatone, senza ben sapere quanto avessi detto e quanto avessi solo pensato in quella sorta di flusso di coscienza. Odiavo l’idea di litigare con lei, ma in quel momento mi stava facendo imbestialire e per quanto ci provassi non potevo trattenermi.
Il punto era proprio quello: cosa sarebbe cambiato effettivamente per lei a parte qualche chilo in più? Nulla. I suoi l’avrebbero sostenuta, aiutata economicamente e anche con la loro stessa presenza… Io? Io sarei stato il vero ragazzo-padre . Mai mi sarei sognato di chieder soldi alla mia famiglia, che ne aveva già sprecati tanti per una testa di cazzo come me, dato lo sviluppo degli eventi…
Merda, ero nella merda più totale ed ero annebbiato, nella mente e nel cuore.
Non era finita però… lei si girò di nuovo strappandomi davanti agli occhi quel foglio. ”Che vuoi dire ora? Basta, ciao, sparisci dalla mia vita?” le dissi contro con un tono pieno di sarcasmo e forse –ok- anche un tantino cattivo.
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view post Posted on 5/4/2012, 22:48
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Possibile che non riuscissi a razionalizzare? In tutto questo, ancora non avevo pensato veramente al tutto. Me ne stavo rendendo conto con lentezza, come se le cose, nel mio cervello, funzionassero a rilento. Mi ero ritrovata a pensarci mille e mille volte, in quei giorni, da quando era sorto il dubbio, ma... vi avevo mai ragionato sul serio? Voglio dire, a parte la preoccupazione, l'ansia, la paura... avevo davvero pensato ad un possibile dopo?
Come una gelida folata di vento, quella consapevolezza mi gelò, per qualche istante. Non avevo mai neanche chiamato quella... quella cosa con il suo nome. Ma non volevo nemmeno farlo! Non aveva un nome e forse non l'avrebbe mai nemmeno avuto. Era lì, in una sorta di limbo. Sospeso. O forse, quella sospesa, ero io. In effetti mi sentivo sull'orlo del baratro, incapace sia di buttarmi che di girarmi indietro. Ondeggiavo, ora da una parte, ora dall'altra, ma non riuscivo a fare nient'altro. Era una cosa stupidissima, del tutto folle, ma ancora ero lì. Una parte di me davvero sperava che qualcuno arrivasse, sollevandomi di forza, per poi portarmi via di lì. Ma quella che, forse, avrebbe dovuto essere la mia unica via di scampo... mi aveva totalmente voltato le spalle.
In effetti, più lo guardavo più mi sentivo confusa. Non solo verso la cosa in sé, ma anche verso di lui. Se fino a poco prima era ancora forte e chiara, in me, la speranza o comunque la voglia di abbandonarmi tra le sue braccia, adesso... mi sentivo strana. Non dico mi fossero passati totalmente dalla testa quei pensieri, ma, comunque, si erano per certi versi guastati. Non ero solo arrabbiata, furente, pronta a picchiarlo... mi sentivo anche delusa. Delusa e ferita. Non l'avrei ammesso mai e poi mai, però era innegabile. Le lacrime che cercavo di trattenere con ogni mezzo erano, in parte, anche per lui. Perché mi sentivo così nei suoi confronti? Tutto era forse destinato ad infrangersi? Forse ci eravamo già avviati in quella direzione, senza nemmeno rendercene conto. Non vi avevo persino già pensato? Sapevo, razionalmente, che una volta compiuto quel passo non saremmo più potuti tornare indietro. Sapevo che rivelarglielo avrebbe cambiato per sempre le cose... eppure l'avevo fatto.
Nuovamente mi domandai se la cosa non fosse stata solo una gran cazzata. Avevo persino preso in considerazione, anche se solo per qualche istante, la possibilità di risolvere tutto da sola. Avrei potuto farlo, prendere in mano la situazione e fare in modo che nessuno ne sapesse mai nulla, lui compreso. Ma poi, chiaramente, il mio stupido senso di giustizia aveva deciso di farsi sentire. Non sarei più riuscita a guardarlo in faccia, se l'avessi fatto. Un minimo, probabilmente, l'egoismo ci aveva messo del suo. Avevo anche paura per me, per come mi sarei sentita, dopo, nei suoi confronti. Sarei stata capace di mentirgli, di tenergli nascosta la cosa per sempre, una volta risolto da sola il problema? Non ne ero affatto sicura. Per l'ennesima, dannatissima volta mi sentivo incerta, fragile. E la colpa era solo sua.
Ecco, si tornava sempre qui. Era sua, sua ed ancora sua la colpa! Io non avevo fatto niente, o quasi... mi ero solo lasciata trascinare dagli eventi, mi ero fatta incantare da lui, avevo permesso che facesse di me qualcosa di nuovo, di diverso. Ellie si era messa in quel casino, non Eloise! Io ero lì, in bilico tra le due parti, sentendo di non appartenere né ad una, né all'altra. Io ero l'unione di quei due mondi, quei mondi che però, adesso, si stavano sfaldando sempre più velocemente, creando in me, al contempo, un senso di vuoto e di oppressione. Non c'era più niente da fare. Ero sempre più fottuta.
E ancora, continuavo a sfuggire a quella parola. O meglio, diciamo che la parola, in sé, rappresentava per me la vera concretizzazione della cosa. Lo sanno tutti, in fondo, che i discorsi sono i miei migliori amici. Non farei che parlare e parlare e parlare... ah, e scrivere naturalmente. E in tutto questo la cosa fondamentale sono appunto le parole. Questo mio attaccamento ad ogni termine, quindi, è più che giustificato. Il dire dunque quella parola avrebbe significato, nella mia testa, rendersi davvero conto del tutto. Entrare in contatto con quella che, potenzialmente, sarebbe diventata la mia realtà. Rabbrividivo al solo pensiero e cercavo di scacciarlo in tutti i modi, ma in fondo sapevo che prima o poi avrei dovuto farlo. Cosa sarebbe successo? Ma soprattutto... cosa dovevo fare? Più ci pensavo, più la nausea tornava a risalire, quasi a ricordarmi quanto tutto fosse reale.
In realtà ancora ci speravo, in minima parte. Magari mi sarei svegliata, di soprassalto, rendendomi conto di come tutto questo fosse solo un orribile incubo. Magari mi sarei voltata, trovandolo addormentato serenamente al mio fianco. Ne avrei sorriso, tranquillizzandomi, per poi lasciarmi nuovamente andare a quella serie di sensazioni che tanto mi avevano fatto stare bene, nei mesi precedenti. Sensazioni che però, adesso, non riuscivo in alcun modo a ritrovare. Mi sentivo sempre più da schifo, sia fisicamente che psicologicamente. E lui non faceva che peggiorare le cose. Cosa si aspettava, che gli preparassi la via come se nulla fosse, tutta tranquilla e contenta? No! Doveva affrontare la cosa, così come avevo dovuto fare io. Avrebbe anzi dovuto ringraziarmi... mi ero tenuta tutto per me, fino a quel momento, fino a quando non ne ero stata irrimediabilmente certa.
Altro brivido, a quel pensiero. E' vero, ho sempre avuto bisogno di certezze. In ogni campo, in qualsiasi cosa. Anche stavolta, quindi, non ero riuscita a sottrarmi dal tutto. Eppure... mai una consapevolezza del genere mi aveva fatto tanto male. Persino quando, a quattordici anni, avevo scoperto di non essere, tecnicamente, davvero figlia dei miei... mi ero sentita così. Non avevo mai provato nulla del genere e non riuscivo ad augurare qualcosa così nemmeno al mio peggior nemico. Tutto il mio mondo mi stava crollando addosso, e nemmeno troppo lentamente. Ogni cosa cadeva, pronta a volarmi in testa. Sarei rimasta schiacciata da quel peso. Per sempre.
Io... io che rischiavo di diventare madre. Ecco, l'avevo pensato. Madre. Io. Quei due concetti erano così assurdi e lontani che non riuscivo a conciliarli in alcun modo. Era tutto sbagliato. Non... non aveva senso! Non poteva essere, non poteva riguardare davvero me. Mi sembrava quasi di stare osservando tutto dall'esterno, di guardare a quella situazione da occhi estranei. Ero io quella con gli occhi pesti e lo sguardo allucinato, ero io quella che non era più sola. O meglio, intorno a me sentivo davvero il vuoto, però... c'era quella consapevolezza, quel qualcosa che si era insinuato nel mio corpo. Non ne percepivo nemmeno il peso, ma sapevo che era lì. Cosa dovevo fare? Cosa volevo fare? Le opzioni non era tante. Anzi. Tutto si riduceva ad una semplice scelta. Semplice... d'accordo, non formalizziamoci su stupidi particolari del genere. Era così, punto e basta. Sì o no. Bianco o nero. Una vita sprecata -la mia o la sua- o meno.
E poi c'era Mark. Mark al quale avevo appena urlato in faccia, tentando vanamente si sfogare tutta l'ansia repressa. Mark che adesso non vedevo nemmeno più in viso, dato che, dopo quella sfuriata, mi ero alzata in piedi tremante, decisa ad interrompere quel contatto anche solo visivo. Ma poi le sue dita si serrarono intorno al mio polso, costringendomi con uno strattone a voltarmi nella sua direzione. Per un primo istante tenni lo sguardo incollato al pavimento, così come serrai convulsamente le labbra, per niente certa di quello che avrei potuto fare. Forse avrei dovuto aspettarmelo, ma, ancora una volta, le sue parole mi colpirono in malo modo, lasciandomi completamente di stucco. “Posso dire quello che mi pare, e si mi andrà di ripetertelo lo farò!” commentai subito, più che acidamente, adirata anche solo a quella prima affermazione. Ancora una volta il mio orgoglio ferito da quelle sciocche parole non era nulla, se confrontato a quello che sentii dopo. Rimasi immobile, a fissarlo, per qualche istante. Una maschera d'orrore e di dispiacere doveva essermi dipinta sul volto, impressa così tanto e così malamente da non farmi muovere nemmeno un muscolo. Cercai di parlare, di strattonarmi appena dalla sua presa, ma non ci riuscii. “Te lo meriti! Te lo meriti quel vaffanculo! E non solo quello! Pensi davvero che per me non cambierà nulla? Pensi davvero che questo sia solo un... un capriccio? So che non riguarda solo me, e che cazzo! Saresti forse qui, se la pensassi seriamente così? Non sono io quella egoista! Se lo fossi... se lo fossi nemmeno te l'avrei detto!” Tentai di riprendere fiato, ma mi ritrovai solo ad annaspare sempre di più, mentre gli occhi mi pizzicavano tremendamente e quella sensazione orribile tornava ad attanagliarmi la bocca dello stomaco. “Sono tremendamente fottuta, esattamente come lo sei tu! La mia vita è in bilico, non solo la tua! Pensi di essere l'unico ad avere dei problemi? E' così? Tutti noialtri siamo dei privilegiati? Svegliati, Mark!”
Finalmente mi lasciò andare e, per un istante, temetti di cadere a terra. Mi sentivo completamente ondeggiare, sfinita da quel mio urlargli nuovamente contro e, soprattutto, sopraffatta dalle sue, di parole. Come poteva pensarla veramente così? Era questa l'opinione di me, di tutto quello che mi circondava? Ero solo un'idiota capace di fare qualsiasi cosa, piena di mezzi e quant'altro? Una sprovveduta, una... no, nemmeno volevo pensare quella parola. Era troppo, davvero.
Totalmente fuori di testa, ormai, finii per strappargli davanti quel foglio che, chiaramente, era diventato una sorta di capro espiatorio. Non volevo ottenere nulla, né quel gesto significava qualcosa, al di fuori dell'esternazione della mia disperazione... ma lui fraintese, come al solito ormai, e se ne uscì con quelle parole. Il suo tono... forse il peggio fu quello. Era cattivo. Pungente. A lui del tutto estraneo. Lo fissai, sbigottita, per poi dargli uno spintone, con entrambe le mani, facendolo tornare a sedere del tutto con la schiena contro lo schienale del divano. “Sì! Bravo! Vattene, visto che tutto questo non ti riguarda! Vattene e non voltarti nemmeno indietro, dato che tu, di responsabilità, non ne hai! Fuggi pure, visto che la colpa è solamente mia, dal momento che io non avrò problemi e la mia vita resterà la solita puttanata, con o senza tutto questo!”
Capita a volte di sentirsi per un minuto felici. Non fatevi cogliere dal panico: è questione di un attimo e passa.
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Mark Pace → student
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Avete anche solo vagamente idea di cosa significhi sentirsi crollare il mondo addosso? Probabilmente è una frase che vi sarete sentiti dire e che avrete detto a vostra volta molte volte, eppure a posteriori quante di quelle volte potete confermare che era la fine del vostro mondo? Di sicuro almeno nella metà dei casi stavate esagerando, presi dalla foga del momento. Io ero esattamente consapevole invece in quella piccola frazione di secondo in cui mi era ridotto a parlare a Ellie in quel modo che il mio mondo stava crollando…A pezzi, a frammenti, piccoli detriti, così come il mio cuore. Lo sentivo frantumarsi dentro il petto, un pezzo dopo l’altro e tuttavia non avevo potuto fare a meno di farlo. Mi stavo odiando da solo per ogni singola parola che mi era uscita dalle labbra; mi odiavo per stare riducendo una delle notti più importanti della mia vita ad un semplice sbaglio o peggio ancora a lei che si buttava addosso a me, povera vittima indifesa. Era orrendo il solo pensiero di aver davvero indotto lei a partorire un’immagine simile, ma sapevo di averlo fatto ed anche in parte consapevolmente. Avevo voluto ferirla in quel frangente, consapevole o meno che ne fossi, perché in realtà il ferito ero soprattutto io. Mi ero sentito quasi tradito da lei, dalla fiducia che avevo riposto in lei e da qualsiasi speranza per il mio futuro.
Il problema si celava in realtà dietro quella semplice parola, futuro. Era anche e soprattutto quello che ora non vedevo più: per qualche giorno, settimana i miei pensieri erano sempre stati solo positivi… Da ché Ellie stava con me, in un modo più o meno esplicito, la mia vita era diventata meno grigia e io stesso mi sentivo diverso, più felice, meno pessimista, tutto sembrava colorato come l’arcobaleno e quei momenti di tristezza serale e nostalgia che di solito mi prendevano erano ormai rari. Ellie, volente o nolente, era una delle persone più importanti che fosse entrata a far parte del percorso della mia vita… Una parte di me in realtà mi immaginava ormai a metà del secondo anno nella prospettiva del lavoro… Un giorno sarei stato avvocato e finalmente avrei avuto una vita come la volevo e nessuno più della mia famiglia avrebbe dovuto sacrificarsi. Ora tutto questo stava per svanire, ora tutte le fatiche di tutti sarebbero state rese vane e ciò per colpa di una piccola cosa, un piccolo elemento che ancora non erano nemmeno formato, qualcosa di praticamente invisibile che cresceva però nella pancia di lei.
Mi ritrovai a soffermarmi appena lì con lo sguardo, provando sempre quel miscuglio incomprensibile di emozioni.
Non riuscivo e non volevo capire cosa stavo pensando, perché avevo paura… paura che quella sensazione di oppressione, quell’idea di non aver vie di fughe si rivelasse in realtà vera. E una parte di me sapeva già che era così e per questo impediva alla mia testa di pensare davvero.
Ma io che cosa sarei stato? Che cosa sarei diventato? Di sicuro avrei dovuto rinunciare al mio futuro, di sicuro avrei dovuto essere un padre che non ero in grado di essere… Poteva tutto questo realizzarsi per davvero?
Ovviamente c’era quella possibilità innominabile che vagava per la mia mente. Era qualcosa di semplice, indolore, qualcosa che avrebbe fatto sì che nessuno sapesse e nessuno lo realizzasse, nemmeno noi.
Eppure il solo pensare una cosa del genere mi dava i brividi, mi sentivo comunque di ucciderlo. Quello che cresceva nella sua pancia era già vita, non potevo farci neinte, era già in atto, era già un unione di Eloise e me. Era anche questo forse tra le altre cose a sconvolgermi: per la prima volta in vita mia avevo costruito involontariamente un legame indissolubile con un altro essere vivente ed il punto era che avevo paura, ancora e di nuovo.
Ellie era speciale certo, ma come potevo scegliere ora di volerlo per tutta la vita? Non avevo mai pensato a niente in questi termini…. In quel momento però capivo di esser messo davanti anche a quell’ennesimo bivio.
E allora alzavo gli occhi verso di lei e volevo cercare delle risposte ma quelle risposte mi facevano solo male.
Aveva appena strappato il foglio davanti ai miei occhi e io, altrettanto ironicamente le avevo risposto: ora toccava a lei e sapevo di dovermi aspettare una furia, perché avevo parlato in modo tale da stuzzicarla, per quanto masochistico possa sembrare. Volevo la sua ira, perché almeno mi sarei sentito in grado di provare qualcosa, in grado di rispondere, di sentirmi utile, di sentirmi pensante.
Quello che non avevo immaginato era però la risposta affermativa alla mia domanda: per un secondo avevo davvero sperato che fosse lei a chiedermi il suo aiuto, perché allora avrei avuto la forza di ergermi, anche solo per proteggerla. Il problema è che fin dal primo momento in cui avevo avuto la notizia mi ero sentito io il colpevole accusato e non avevo potuto fare altro, per orgoglio e difesa, che rimandare le stesse accuse a lei.
Ero ancora lì, impegnato a guardarla cercando di recepire ogni messaggio, ma nei suoi occhi vedevo solo sicurezza, mentre io al momento ero totalmente sradicato.
Mi sentivo uno straccio, mi sentivo privo di radici, d’appoggio, isolato da qualsiasi aiuto, abbandonato su un mondo che non era il mio. Mi sentivo realmente in svantaggio rispetto a lei, non erano balle… E sentirle dire quelle cose fu una pugnalata al cuore.
Non avevo più nulla da fare lì, aveva ragione, ero inutile, non poteva uno come me aiutarla davvero! Io non ero in grado di muovere nemmeno un muscolo per lei e non sapevo nemmeno se volevo farlo e che diritto ne avevo.
Non sapevo nemmeno più che cosa provavo… Guardavo il suo viso e percepivo tutto l’astio che mi riempiva per quel momento così in contrasto con l’affetto che provavo normalmente per lei: avete idea di quanto faccia male e possa squarciare interiormente l’odiare chi si adora? Fino a pochi istanti prima, se me lo avessero chiesto, avrei detto di fare qualsiasi cosa per lei ma ora che ero messo alla prova avevo paura. Forse non ero nemmeno in grado di volerle bene davvero… Come avrei potuto essere u buon padre per un ipotetico figlio? E quella creatura era sua alla fine, non mia, era in lei che cresceva.
Mi sentii oppresso ancor più di prima, il suo sguardo mi metteva spalle al muro e mi uccideva.
Gli occhi cominciarono a pizzicarmi. Non volevo esser debole, non volevo cedere, non volevo esser codardo, ma restando in quella stanza mi sarei solo esposto per nulla, perché non sarei riuscito a fare proprio nulla in quel frangente.
Ero fragile e non dovevo. Non volevo! Io avrei solo voluto un giorno essere un padre davvero positivo, ma non lo ero, non ora! Sarei solo stato come il mio di padre e io dovevo fuggire da tutto questo e dalla persona che me lo metteva tanto palesemente in luce.
Dovevo solo convincermi che non era successo niente e che era stata proprio lei a scacciarmi in quel momento.
Le lanciai un ultimo sguardo mentre sentivo gli occhi bruciare poi mi indirizzai velocemente verso la porta d’uscita e me la chiusi dietro sbattendola in fretta, prima ancora di pensare, infilandomi dentro l’ascensore e premendo compulsivamente il tasto “terra”. Dovevo allontanarmi da quel luogo… da quel punto che era la fonte di tutto… Da Ellie, da quella notizia, da quel mio futuro. Volevo fuggire e stavolta non avrei avuto nessuno a consolarmi, perché il male era celato nel rimedio.
Sentii una lacrima che mi rigava la guancia e mi odiai ancora di più per la fragilità che mi contraddistingueva. Ma non potevo fare altrimenti… Non potevo semplicemente darle ciò che lei mi chiedeva sia finanziariamente che in termini di vera responsabilità e fedeltà. Non ero pronto per quel passo e non lo sarei stato… Ero ancora giovane… Troppo. Lei aveva aiuti, io no… Probabilmente senza di me tra i piedi sarebbe stato tutto più facile, anche nel caso avesse preso certe decisioni.
Dovevo solo capire che non l’avrei rivista mai più perché non avrei più avuto il coraggio di guardarla in volto e cercare di scoprire se lo teneva o no.
Fu a quel pensiero che altre lacrime seguirono la prima: non dovevo vederla più. Mai. Ellie spariva dalla mia vita… Quel giorno al bar doveva esser cancellato, così come tutti i seguenti e i bei ricordi che avevo di lei e con lei. Non c’era più niente di tutto quello. Dopo tutto non era stata la mia prima ragazza, non sarebbe stato difficile. Ci voleva qualche giorno ma poi la nostalgia e la mancanza di una presenza speciale svanivano.
Era sempre stato così… Doveva esserlo anche stavolta. E dovevo smetterla di sfiorare il cellulare nella tasca con la voglia di premere il tasto chiamata e sentire la sua voce… Me ne ero andato e non avevo nemmeno pronunciato una parola. E l’ultimo termine che avrei per sempre ricordato di lei era quel fuggi.
L’ascensore si fermò: aprii la porta cercando di scacciar via le lacrime ora che dovevo tornare in pubblico, tra la gente. Dovevo solo esser dimentico… Era l’ennesimo colpo della sorte nella mia vita, ma l’avrei superato. E non dovevo più voltarmi indietro.
Sospirai profondamente e mi incamminai per strada, le mani in tasca, il passo rapido per sfuggire effettivamente a lei e alla sua aura.
Mi mancava però. Mi stava lentamente consumando, centimetro dopo centimetro. Volevo lei e non l’avrei più avuta. Volevo il mio futuro però, dovevo dirmi che lo facevo per quello. Avevo sacrificato lei per lui. Ora dovevo solo credere che ne fosse valsa la pena.
It's easy to cry when you realize that everyone you love will reject you or die.
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view post Posted on 8/4/2012, 18:51
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eloise hawking → student
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Per quanto apparentemente semplice e scontato, il succedersi degli eventi non lo fu affatto. Non nella mia testa, almeno. Nemmeno a posteriori, razionalmente, riesco a ricordare con assoluta precisione ogni cosa. Ci sono dei particolari, più che altro, che ancora continuano a ferirmi e farmi star male. Particolari che probabilmente non riuscirò mai a cancellare drasticamente dalla mia mente. Particolari che se ne stavano lì, ancora più forti in quel momento, continuando a pungolarmi, ancora ed ancora, facendomi notare l'assurdità della situazione.
Ma tentiamo comunque di andare con ordine, per quanto anche solo ritornare a seguire il filo dei miei pensieri, i pensieri di quel giorno, mi faccia un male immenso. Stavamo litigando, pesantemente, com'era in fondo giusto che fosse. Le indoli di entrambi non potevano permettersi altro. Nessuno dei due si sarebbe arreso, nessuno dei due avrebbe lasciato che l'altro prendesse in mano la situazione. E' molto probabile che non lo ripeta mai più, ma, quella volta, odiai davvero il mio orgoglio. Era -anche- lui ad impedirmi di comportarmi in modo diverso. Per orgoglio, tra le tante cose, lo allontanai da me. Non vedevo altra soluzione. Io non potevo mostrarmi debole. Non potevo chinare il capo, comportarmi da donnetta indifesa e... rifugiarmi tra le sue braccia. Soprattutto perché era ciò che volevo fin dal primo momento, fin da quando Mark aveva fatto il suo ingresso in casa. Era stato alquanto difficile resistere all'impulso di fiondarmi nel suo abbraccio, convinta com'era, una parte della mia mente, della consolazione della cosa. Era del tutto irrazionale, naturalmente, come idea, ma inizialmente il solo pensiero mi aveva fatta sentire appena meglio. Certo, è anche vero che c'era tutta una controparte, in questo, che mi diceva che, invece, la cosa sarebbe stata solo l'ennesimo atto di debolezza nei suoi confronti. Debolezza che, ormai, doveva avermi sopraffatto praticamente del tutto...
ma ormai questi pensieri erano spariti. Svaniti così, in un istante, nel momento stesso in cui lui aveva cominciato a rispondere alle mie accuse. Accuse, poi. Forse ero stata un tantino acida e forse un po' cattiva, ma come avrei dovuto comportarmi? C'ero io in quel casino, c'ero io... e lui. Per una che ha sempre tutto sotto controllo nei minimi dettagli una cosa del genere è totalmente destabilizzante. Ma non solo. Cazzo, come vi sentireste voi? Genitori, così, da un giorno all'altro. Anche solo il pensiero mi faceva venire letteralmente i brividi. Non poteva essere. Non io. Quello era sempre stato l'ultimo dei miei pensieri. Io... io non volevo figli. Mai. Non ne avrei mai voluti. Ora, a maggior ragione, cosa sarebbe successo? Per quanto mi sentissi adulta ed indipendente, del tutto in grado di badare a me stessa... non potevo essere una buona madre. Anzi, non potevo nemmeno essere una madre e basta. Non ero tagliata per quel ruolo, né mai lo sarei stata, probabilmente.
Ma su questo avevo riflettuto. Un pochino, ma l'avevo fatto, dato che, in effetti, fino a quel momento non avevo mai davvero formulato la cosa in quel modo. Ma adesso il problema non era solo questo. C'era altro, altro che si andava a sommare a tutta questa merda e mi soffocava praticamente del tutto. Se prima avevo sperato di avere la sua comprensione, o, almeno, il suo appoggio... adesso non riuscivo nemmeno a guardarlo. L'avevo sentito forte e chiaro dirmi quelle cose, spiattellarmi in faccia come la colpa, secondo lui, fosse solo mia. Ma questo forse era il meno. C'era astio nelle sue parole, rancore e... freddezza. Forse a farmi scoppiare fu proprio questo. Come poteva davvero sentirsi tanto distaccato e distante? La cosa, dannazione, lo riguardava! Riguardava lui quanto me!
Il signorino, invece, era convinto di essere l'unico nei casini. Pensava che tutto fosse arrivato al capolinea solo per lui, mentre io... io come dovevo sentirmi? D'accordo, ero incazzata, ma non c'era nient'altro. Sembrava quasi che per me non sarebbe cambiato nulla. Non potevo credere che la pensasse davvero così. Insomma, tra tutti proprio... proprio lui? Questo significava solo una cosa: in tutto quel tempo non avevo mai capito nulla. Quello che Mark rappresentava, nella mia testa, doveva essere solo frutto della mia immaginazione. Non c'era nulla di diverso, di veramente distinguibile, in lui. L'amara realtà si era manifestata tutta in un colpo: era come tutti gli altri. Anche lui era come tutti gli altri. Non gli rimproveravo l'incazzatura, la paura o tutte queste cose. Mi sentivo così pure io, questo era chiaro. Ciò che mi faceva soffrire era la sua mancanza di comprensione. Ora non ero più nulla. Ero diventata semplicemente qualcosa in più da odiare, l'ennesima fonte di rancore e dolore.
Per quanto mi sforzassi, per quanto fossi arrabbiata, però, non riuscivo a vederlo nello stesso modo. C'era sempre qualcosa a bloccarmi, qualcosa che mi diceva che no, le cose non potevano seriamente andare così. Mi odiai, in quel momento, mi odiai moltissimo. Ero debole. Debole e stupida. Non avrei nemmeno più dovuto guardarlo in faccia, altroché lasciare che una parte della mia mente tentasse persino di giustificarlo! Ma non c'era nulla da fare. Volevo attaccarmi a lui. Non volevo che mi lasciasse, che mi abbandonasse. Non volevo davvero che uscisse da quella porta, andandosene per sempre dalla mia vita. Naturalmente, però, tutto era solo nella mia testa. Razionalmente non l'avrei ammesso nemmeno a posteriori. Non l'avrei ammesso mai e poi mai, punto. Quell'idea se ne sarebbe rimasta semplicemente lì, a vagarmi per la mente, senza che nessuno ne sapesse nulla. Forse era questa la via giusta. Per tutto, non solo per lui. Cancellare ogni cosa, ogni prova. Cancellare tutto ed andare avanti.
Peccato, però, che in ballo ci fosse sempre quella stupida fragilità. Ero in parte consapevole dell'impossibilità della cosa. Insomma, razionalmente quella era la decisione migliore. Per me, per lui... persino per quella cosa, perché di chiamarla in altro modo proprio non me la sentivo. Nessuno ne avrebbe sofferto. Forse. O almeno, non il diretto interessato. In fondo... non era in grado di sentire nulla. Sempre nella sfera della possibilità. Ma io? … Non riuscivo e non volevo riuscire a pensarci davvero. Io come mi sarei sentita? Quel senso di colpa che già adesso, soffusamente, andava a pizzicare qualcosa, dentro di me... si sarebbe accresciuto? Domanda scontata, chiaramente. Certo che sarebbe stato così. Qualcosa mi diceva che quell'idea mi avrebbe tormentato per sempre. Così come il ricordo di lui.
Già, lui. Di colpo non sapevo nemmeno più come sentirmi, nei suoi confronti. Lo odiavo, sicuramente in quel momento lo odiavo. Come aveva potuto dirmi quelle parole? E il suo sguardo... non c'era solo tristezza e rabbia in quegli occhi. Non l'avevo mai visto così. Non mi aveva... non mi aveva mai guardata in quel modo. Anche adesso avevo paura a rivolgermi nella sua direzione. Incontrare di nuovo quegli occhi così scontrosi e distanti... non ero del tutto sicura di poterlo sopportare. Lui. Lui che mi trattava così. No, non era possibile. Irrazionalmente continuavo a dirmi che la cosa non era nemmeno pensabile. Non lui. Non... Mark. Invece, istante dopo istante, l'idea che tutto fosse sempre e solo stato nella mia mente prendeva piede. Come avevo potuto essere così stupida? Come avevo potuto anche solo credere che lui fosse davvero... diverso?
Oh, sì, in effetti diverso lo era parecchio. Si stava dimostrando tale. Diverso da come era sempre apparso, volente o nolente, nella mia testa. Quante cose avrei voluto urlargli in faccia...! Continuare a sfogarmi, ad accusarlo, fare tutto quello che lui aveva fatto con me. Lo so, è stupido e non dovrei nemmeno pensarlo, tanto è banalizzato, ma avevo davvero sentito qualcosa incrinarsi, dentro di me, fin dal primo momento. Aveva detto che ero stata io l'artefice di tutto. Non tanto per la cosa in sé, quanto... quello che era successo. Sebbene fossero ormai passati mesi, il tutto era ancora vivido, nei minimi particolari, nella mia mente. Probabilmente è sciocco ed ingenuo, ma il solo pensiero di quella notte mi metteva piacevolmente i brividi. Ogni tocco, ogni sensazione provata era sempre lì, ad accompagnarmi. Ma erano bastate poche sue parole per banalizzare e rendere tutto odioso. L'errore di una notte. Una notte come tante altre. Una notte idiota, in cui io mi ero comportata da sprovveduta. Dovevo sempre essere stata questo, per lui. Un divertimento passeggero, un'idiota che si era lasciata trasportare e che lui avrebbe utilizzato, come trastullo, fino al momento buono.
Nulla a che vedere con quello che invece si profilava davanti ai nostri occhi. Se, fino a quel momento, la parola futuro non aveva fatto che emozionarmi e creare in me speranze positive, adesso... adesso non riuscivo neanche più a formularla. Qualunque fosse stata la scelta, la decisione... qualunque cosa mi passasse per la testa, ora, non c'era futuro. Tutto era nero ed opprimente. Cosa sarei diventata? Avrei dovuto abbandonare tutto, caricarmi di un peso che non avrei desiderato neanche una volta realmente cresciuta, e... e poi cosa? Cosa sarebbe successo? Già mi vedevo, totalmente abbruttita da quell'abbattimento, abbruttita nell'anima, nei pensieri. Non sarei mai stata veramente una madre. Quel ruolo non mi si addiceva. Quel ruolo... non era da Eloise.
Ed Ellie? Ellie dove finiva in tutto questo? Ancora non l'avevo capito, o almeno, non lo capii fino a quando quella scena non si presentò davanti ai miei occhi. Avevo appena finito di sbraitargli addosso, com'era giusto che fosse, gli avevo urlato di andarsene, dato che non sembrava aver voglia di fare altro. Ma mai, davvero, mai mi sarei aspettata di vedere qualcosa del genere. Tutto accadde a rallentatore, o se vogliamo, troppo in fretta perché potessi davvero fare qualcosa. Mi ero di nuovo voltata, o almeno, in parte l'avevo fatto, perché non potevo sopportare la sua vista. Eppure con la coda dell'occhio, per quanto furente e ferita, non riuscivo a non guardarlo. Per una frazione di secondo i nostri occhi si incontrarono. Lo vidi, lo vidi benissimo che era sul punto di scoppiare, a sua volta. Per qualche momento quasi mi convinsi che si sarebbe alzato e avrebbe fatto l'unica cosa che poteva fare: smetterla di insultarci a vicenda e... ricominciare a ragionare.
In effetti, si alzò. Si alzò, dopo quello sguardo carico di accusa e di dolore e sparì. Così, semplicemente, come se la cosa fosse la più naturale del mondo. Stava fuggendo. Fuggiva esattamente come avevo fatto io tantissime altre volte. Ero paralizzata, non riuscivo nemmeno a pensare. Fu tutta questione di pochi secondi, ma, se mi fossi riscossa da quell'orrendo torpore, avrei sicuramente potuto fare qualcosa. Invece eccomi lì, immobile. Impotente. La porta sussultò, dietro di lui, e io feci lo stesso.
Se n'era andato. Se n'era andato e io non avevo fatto nulla. Forse, anzi, probabilmente avrei dovuto rincorrerlo. O almeno, l'avrei fatto, se l'orgoglio non mi avesse frenata. Io l'avevo istigato a fuggire. Io l'avevo schernito. Io... io lo odiavo, dannazione! In quel momento lo odiavo! O forse... o forse odiavo me stessa, detta in modo molto più palese. Magari era davvero tutto un incubo. Mark non era veramente uscito da quella porta, senza nemmeno voltarsi, senza nemmeno dire una parola...
il silenzio, però, mi perforava le orecchie molto più delle urla di poco prima. Era successo. Era successo davvero. Ancora una volta, in vita mia, ero rimasta sola. Anzi, una vocina, nella mia testa, diceva che sola non lo sarei stata. Mai più. Avevo voglia di gridare, di strapparmi dalla testa quei pensieri tanto funesti e pesanti. Non potevo farlo, però. Non potevo permettermi di essere così debole, così schifosamente... umana. Eppure, non riuscii a resistere. Quel grido che cominciava già a fuoriuscire dalle mie labbra, inizialmente, mi sembrò qualcosa di totalmente esterno alla mia stessa persona. Era ancora sottile, agitato, qualcosa di tremendamente fastidioso. Barcollai fino in camera, affondando il viso contro il cuscino. Se solo fosse bastato quello, a smorzare tutto ciò che mi ronzava in testa, così come stava spegnendo le mie urla e le mie lacrime... non avevo più niente da perdere, ormai. Avevo già perso ogni cosa. La mia vita, me stessa e... lui. Persino lui.
Capita a volte di sentirsi per un minuto felici. Non fatevi cogliere dal panico: è questione di un attimo e passa.
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